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domenica 17 settembre 2017

Mekigah - Autexousious

#PER CHI AMA: Avantgarde/Drone/Black/Noise, Ulver
Mekigah atto quarto: tanti sono infatti gli album che il sottoscritto ha recensito per la band australiana qui nel Pozzo dei Dannati, band che seguo sin dal loro debutto del 2010, 'The Serpent's Kiss'. L'act di Melbourne, capitanato come sempre dal solo Vis Ortis, coadiuvato poi da tutta una serie di amici che da queste parti conosciamo bene (penso ad esempio a T.K. Bollinger) rilascia un nuovo lavoro, 'Autexousious', che prosegue nella sua evoluzione sonora verso lidi sconfinati. Li avevamo conosciuti come promotori di un sound dark gothic, li abbiamo apprezzati nella loro veste death doom, li abbiamo lasciati in territori drone con 'Litost' e da li ripartiamo per immergerci nelle nere tenebre di 'Autoexousious' e del suo suono apocalittico, putrescente e melmoso che per certi versi riprende proprio il penultimo album, affidandosi completamente a landscapes sonici disturbati, votati ad un dronico approccio angosciante, come quello che si respira ad esempio nella lunga ed inquietante title track, una marcia funebre aspra ed allucinata, contraddistinta dai vocalizzi insani del mastermind australiano. Si prosegue e si finisce catturati dai suoni deliranti di "Fooled Blood", non so se una vera song o piuttosto un interludio per la successiva "Zmatek". Una traccia sperimentale di scuola "ulveriana", complice una voce che evoca in un certo qual modo, quella di Garm, in un incedere epico e finalmente digeribile e coinvolgente (soprattutto a livello percussivo), in grado di rendere la proposta dei Mekigah un po' più abbordabile, almeno nella sua prima parte, prima che rigurgiti psicotici emergano dalla maledetta ed oscura musicalità di questo brano. Un altro intermezzo noise ed ecco "The Infinite Never", una non-canzone all'insegna di voci robotiche e dilatatissimi suoni ambient-ritual-cibernetici. Ci avete capito qualcosa? Io non molto, ma forse è il bello di questa band che ha ancora tempo di sparare le ultime cartucce con il trittico finale affidato alle litaniche e soffocanti melodie di "A Vast Abyss", un brano che incarna forse l'intera produzione dei Mekigah in un malinconico e caustico pezzo all'insegna di ambient black doom drone d'avanguardia. Con "Backpfeifengesicht" ci immergiamo in dieci minuti di minimalistici vaneggiamenti sonori che tra drone, black noise, oscuri anfratti ambient, avantgarde e musica elettronica, non fanno altro che proiettarci in uno spazio intergalattico assai distante. A chiudere il disco, il cui mastering è stato affidato a Greg Chandler degli Esoteric, ci pensa "Rejection Nostalgia", l'ultimo atto che mal cela la follia dilagante di Vis Ortis e dei suoi Mekigah. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2017)
Voto: 75

https://mekigah.bandcamp.com/album/autexousious

venerdì 15 settembre 2017

Hypnotic Drive - Full Throttle

#PER CHI AMA: Heavy/Stoner, Black Sabbath, Alice in CHains
Ovunque, monolitiche architetture di conglomerazione lapalissianamente sabbatiana ("Voodoo Witch" vs. "Black Sabbath", la canzone; "Darkened White" vs. qualcosa a caso di 'Master of Reality', per esempio "Lord of this World"), sabbatianamente psych anche nel modo altrettanto sedimentario, tanto caro agli Alice in Chains, di rarefarsi improvvisamente e generare repentini stati di sospensione emotiva ("Barbwire"). I toni digressivamente vintage (alla Wolfmother, giusto per dirne una) di canzoni come "Heading South" lasciano dubbi sull'intenzionalità, forse in realtà semplicemente heavy-southern (perlomeno a giudicare dal titolo). Un approccio ortodosso ed eccessivamente devozionale nei confronti di quello che è universalmente noto come il sottogenere più monolitico della storia del rock (quindi occhio agli sbadigli), impreziosito però dalla introduttiva deflagrante "Five Regrets", una canzone che emana monossido di carbonio prima ancora di cliccare sullo Start, che al contrario è indebolito da un'incerta performance vocale sempre dubbiosa, al confine tra il rauco e il clean e a tratti disgraziatamente prossima a certi mugugni alla tardo-Glen-catetere-Danzig, specialmente quando lo skyline melodico si fa più accidentato (cfr. "Crossroads"). (Alberto Calorosi)

Voto: 65

A sentirli non si direbbe che la loro base operativa sia nella capitale francese, tanto è il sudore, l'asfalto caldo e la polvere che emana il loro primo album. Con intelligenza e maestria la band parigina, nel suo piccolo, stravolge le regole dello stoner, del metal e del doom. Gli Hypnotic Drive mantengono una certa originalità pur mischiando le carte dei generi citati in precedenza senza pretendere di spacciarsi per innovatori ed il risultato li premia, perché questo loro primo lavoro nasconde paragoni stilistici distanti tra loro ma uniti dalla voglia di questi musicisti di comporre brani fuori dagli schemi, diversi dalle mille band fotocopia che popolano il panorama internazionale. Per cominciare citiamo gli Alabama Thunder Pussy che suonano caldi e sudati, uniti al piglio ancestrale di certi album dei Candlemass (vedi "Dactylis Glomerata"), Wino e Down, con la graffiante verve punk dei Damned della prima ora e la malattia per i motori e le strade desertiche che li accomuna all'hardcore/hard rock degli Zeke. Gli Hypnotic Drive non prediligono la psichedelia, che in questo album è praticamente assente, hanno un tiro assai spinto di scuola Motorhead anche se il tono particolare della voce, che per certi aspetti ricorda il mai dimenticato, spettacolare, Dave Vanian degli esordi con picchi più aggressivi che spopolano in territorio Sixty Watt Shaman, li rende molto interessanti e credibili. Una produzione piacevole dona infine il tocco sotterraneo e pesante all'intero lavoro e la copertina rispecchia bene l'intento della band. Echi di classic metal escono dal pentagramma del combo transalpino e non guastano, anzi li spingono in territori molto vintage rock che ben si sposano con l'idea di rinnovare ed ampliare l'immagine dello stoner rock. Disco adrenalinico, da apprezzare a volume alto, curato e indipendente, fuori dagli schemi di chi si aspetta il solito categorico stoner rock, decisamente un buon album per chi ama il suono duro e polveroso. Dei buoni musicisti, un groove potente e la voglia di andare oltre. "Voodoo Witch", "Crossroad" e "Barbwire" i brani più incisivi. Bel disco! (Bob Stoner)

Mad Dogs - Ass Shakin' Dirty Rollers

#PER CHI AMA: Hard Rock
Dopo qualche tempo torniamo a parlare della GoDown Records, etichetta granitica nata quasi quindici anni fa e che ha sempre mantenuto un elevato livello nelle sue produzione stoner/garage/psychedelic rock. L'etichetta ci presenta oggi i Mad Dogs e il loro ultimo album ' Ass Shakin' Dirty Rollers' (il terzo) uscito quest'anno ad aprile. Il quartetto nasce a Macerata nel 2009 e dopo due lavori abbandonano la lingua italiana e si buttano a capofitto nel garage/blues rock con ancora parecchio da dire. Le tracce sono dodici, veloci ed intense come ci si aspetta dal genere, vedi "Make it Tonight" che strizza l'occhio ai vecchi Guns N' Roses grazie al ritornello facile e i gran riff e assoli di chitarra. Addentrandoci sempre più a fondo nel mondo di questi cani pazzi, si rimane sempre più colpiti dal groove dei brani, come in"It's not Over", un perfetto blues adrenalinico misto ad hard rock anni '70 che entra facilmente in circolo e convince senza tanti complimenti. Piacevoli, seppur semplici, gli interventi di tastiera/organo che completano il tutto, rendendo il sound rotondo e per certi versi raffinato. Il brano più scanzonato è sicuramente "Surf Ride", una ballata veloce e sentita più volte, ma che cattura sempre, soprattutto durante un live con un pubblico che ha voglia di divertirsi e non aspetta altro per potersi scatenare. Nel complesso la qualità audio dell'album è in linea con il genere, quindi niente di ricercato, tutto si basa sulla musica, quindi il resto è relativo. Ma dove c'è luce c'è anche oscurità, ed ecco quindi "Psychedelic Earthquake" che chiude questa release, una sorta di 'The Dark Side of the Moon' dove i fumi di oppio aleggiano pesanti intorno a noi. Nel frattempo la musica cresce a ritmo di un battito cardiaco ancestrale, tutto rotea sempre più veloce fino all'esplosione finale dove la sezione ritmica prende il sopravvento insieme all'hammond e all'immancabile assolo di chitarra. Un brano di per sè semplice, ma ben eseguito e con grande impatto emotivo. Che sia questo il sound giusto per la band maceratese? Forse si, ma lasciamo a loro decidere cosa fare da grandi. (Michele Montanari)

venerdì 8 settembre 2017

Blood Red Throne - Come Death

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Brutal Death, Cannibal Corpse
Aaarghhh! Abbiamo recensito gli ultimi due album dei mostruosi Blood Red Throne, andiamo allora a pescare un loro classico, 'Come Death' del 2007. La band, guidata dall’ex Emperor Tchort, si riaffaccia sulla scena a distanza di un paio d’anni dal fortunato 'Altered Genesis', con un lavoro compatto di una quarantina di minuti, che prosegue il discorso iniziato nel 2001 con 'Monument of Death'. La musica è come sempre un micidiale attacco frontale di puro death metal sulla scia dei migliori act americani (quelli della Florida per intenderci). La release dei nostri segna tra l’altro, l’ingresso in formazione di Anders Haave alla batteria e Vald alla voce, che mostrano decisamente di saperci fare. La musica? Beh, è il solito pesantissimo e intricato muro di riffs eretto dal duo formato da Tchort e Død, sorretto dalla violenza di Anders alle pelli (mostruoso nei campi di tempo e nei blast beat) e dalle gutturali vocals di Vald (che si lascia talvolta andare anche a uno screaming maligno, di stampo black). È un brutal death efferato che non lascia scampo: chitarre al fulmicotone (ascoltatevi “Taste of God”, “Guttural Screams” o la title track per farvi un’idea) crivellano di proiettili il nostro corpo, spaziando con il loro inquieto riffing in territori black o grind, talvolta rallentano nel tentativo di creare atmosfere angoscianti, quasi claustrofobiche, ma che fanno comunque pur sempre male. La quarta release della band scandinava è vincente, anche se non riesce a raggiungere i livelli dei precedenti lavori. Consigliato ai seguaci della band e agli amanti del brutal in genere, perché per chi non è abituato, qui si rischia veramente la pelle. (Francesco Scarci)

Anterior - This Age of Silence

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Heavy/Thrash/Metalcore
Dici Metal Blade, pensi ad una serie di lavori che oscillano tra il death metal melodico, il metalcore e il deathcore. Gli Anterior rientrano nella prima categoria, anche se sottilissima è la linea di demarcazione che li separa dal metalcore. 'This Age of Silence' ha rappresentato il debutto assoluto, per il combo gallese e direi che il risultato non è assolutamente malvagio. L’influenza primaria che si può ravvisare nelle linee di chitarra di questo disco, è il classico british heavy metal alla Iron Maiden, arricchito logicamente dalla rabbia e dalla melodia dello swedish death metal. Nove buoni pezzi per quasi tre quarti d’ora di musica, potranno certamente catturare la vostra attenzione: la band gioca nei propri brani a rincorrersi, grazie all’abile prova delle due asce, Leon Kemp e Luke Davies, che costruiscono ottimi riff thrash, alternati a frangenti progressive, sfuriate metalcore, passaggi acustici e soprattutto ottimi assoli, merce assai rara; ma anche la prova degli altri musicisti è davvero sopra le righe. Nove tracce dicevamo, che traggono la loro ispirazione dai grandi del passato, Iron Maiden ma anche dai Metallica, prendendo poi spunto (notevole talvolta) anche da Children of Bodom e Arch Enemy, in testa, con quel cantato in growl sempre a farla da padrone; la classe non manca, i mezzi per far bene neppure, ciò che latita è l’originalità, quel bagliore di personalità che potesse far decollare questi ragazzi verso il successo, che ahimè non è mai arrivato dato lo split del 2012 in seguito al secondo 'Echoes of the Fallen'. Disco carico di intensità ed energia che avrebbe meritato di più se solo si fosse mostrato più originale. (Francesco Scarci)

giovedì 7 settembre 2017

Amentia – Scourge

#PER CHI AMA: Techno Brutal Death, Necrophagist, Exhumed
A distanza di sei lunghi anni dal precedente ottimo 'Incurable Disease', la band di Minsk mostra una forma smagliante innalzando ulteriormente il tiro nei confronti della qualità della loro proposta. Dediti da sempre al verbo del technical/brutal death, in questo nuovo 'Scourge', i quattro musicisti giocano al meglio le loro carte calando sullo spartito tutta la loro esperienza di settore. I nostri si presentano questa volta con un prodotto altamente tecnico, violento, d'impatto e assai intenso da ascoltare a tutto volume, con variegati e stimolanti paesaggi sonori, taglienti e sinistri, comandati in maniera egregia, dalla voce gutturale dell'ottimo vocalist Zubov. L'act biellorusso si è poi fatto aiutare da una registrazione che permette tranquillamente di seguire ogni singolo strumento e che mette in evidenza le doti canore quanto le articolate peripezie artistiche del chitarrista Artyom che usa come mitragliatrici, chitarre ossessive e demoniache, uscite tra la follia dei Psyopus e il taglio macabro di Exhumed e Necrophagist, unite a venature di stampo death più classico. Perfetta la sezione ritmica con una batteria supersonica e un basso molto interessante, dal sapore decisamente sofisticato e dalla tecnica raffinata, cosa che offre decisamente parecchia verve all'insieme sonoro. Non sarà l'originalità con cui si distinguerà il combo bielorusso ma sicuramente gli Amentia verranno apprezzati per la bravura, la peculiarità e la personalità con cui costruiscono le loro composizioni, che sempre risultano vive e mutanti ad ogni ascolto. Ottima anche la produzione che opta per un sound reale e umano evitando quel suono finto e ipercompresso che a volte si tende ad utilizzare nel genere. La copertina è ben fatta e decisamente a tema, il disco mostra una durata giusta che si aggira intorno alla mezz'ora e con l'apertura affidata all'iniziale "Kill Me" e alla successiva "I Don't Believe" (brano peraltro stupendo con assolo spettacolare!) che insieme a "Sentence Executioner", rappresentano i tre brani simbolo di un album tutto da scoprire ascolto dopo ascolto, per una band che merita veramente tanta attenzione. In un mare di imitazioni e finti musicisti, gli Amentia risultano come un'isola felice. Entrate in sintonia con il significato del loro moniker e gustatevi la follia nascosta tra le note di questo ottimo 'Scourge'. L'ascolto è quanto meno dovuto! (Bob Stoner)

Fleurety - Inquietum

#PER CHI AMA: Black Sperimentale
Fleurety è un demone dell'oscurità, luogotenente di Belzebù, esperto di veleni ed erbe allucinatorie che appare nel Grande Grimorio scritto a quanto pare oltre 500 anni fa. Un nome, Fleurety, che a me rimane scolpito nella memoria per essere un gruppo autore di un album pazzesco di black psichedelico, che quasi gli valse l'appellativo di Pink Floyd del black metal. Sto parlando di 'Min Tid Skal Komme' che uscì nel 1995. Dopo quel disco nel 2000, un interessante album di musica d'avanguardia e poi un silenzio perdurato quasi dieci anni, a cui seguì una sfilza di EP, quasi a dirci che il duo norvegese è ancora vivo e vegeto. Ora tutti quei dischetti sono stati raccolti sotto lo stesso tetto, 'Inquietum' appunto, a prepararci ad una nuova uscita della band prevista per fine ottobre. Intanto proviamo ad analizzare questa compilation, confezionata egregiamente dalla Aesthetic Death, in un digipack giallo fosforescente. L'album si apre con "Descent Into Darkness", song che risale addirittura al primo demo della band, datato 1993 e qui rimasterizzata insieme alla strumentale "Choirs" e ad "Absence", originariamente incluse in 'Ingentes Atque Decorii Vexilliferi Apokalypsis'. La prima traccia si manifesta come una forma assai primitiva di quel 'Min Tid Skal Komme' di cui scrivevo poc'anzi, ossia un black metal psicotico e disturbato che offre chitarre ronzanti, annichilenti vocals malate e derive droniche che saranno più palesi nella breve "Choirs", fino a giungere all'infernale "Absence", in un black thrash caustico ed inconcludente che vede i nostri, solo nell'ultimo minuto, lanciarsi in un'avanguardista fuga psicotropa. Si arriva a "Summon the Beats" e "Animal of the City", le due song del 7" 'Evoco Bestia' e mi sembra di aver a che fare con un'altra band: abbandonati i perversi screaming del vocalist, ecco apparire una gentil donzella, Ayna B. Johansen, che offre le sue doti canore su di un sound arrembante, ovattato quanto mai delirante che sembra essere una B-side estratta dal secondo 'Department of Apocalyptic Affairs'. La seconda traccia è invece puro black metal, rozzo e malato, che soltanto negli ultimi 60 secondi lascia trapelare un che di epico ed indomito. Il terzo capitolo della saga include i due brani inclusi in 'Et Spiritus Meus Semper Sub Sanguinantibus Stellis Habitabit': "Degenerate Machine" è caratterizzato da uno strano mix a livello vocale con dei rigurgiti stralunati in stile Solefald uniti ad un qualcosa al limite dell'improponibile traslati in un sound dozzinale quanto mai ferale, ma ricco anche di riferimenti prog che preservano un'aura di misticismo sull'intero lavoro. La seconda "It's When You're Cold" è sperimentazione black noise parecchio difficile da digerire, se non dopo aver ingerito o fatto uso di una dose di sostanze decisamente proibite che inducono poi un lungo sonno lisergico. Il quarto e ultimo capitolo è affidato all'ultimissimo EP, 'Fragmenta Cuinsvis Aetatis Contemporaneae', uscito a inizio di quest'anno e che include "Consensus" e "Carnal Nations", due tracce che probabilmente fotografano l'attuale stato di forma del duo originario di Ytre Enebakk. Una prima traccia che affida la propria ritmica ad un black schizofrenico su cui poggiano strani effetti sonori e onde modulatorie disturbanti generate dai synth deviati di Svein Egil Hatlevik (la sua esperienza nei Dødheimsgard deve essere pur servita); la seconda song invece sembra essere la canzone più normale del cd, peraltro la più legata a quel primo grande album di questi folli musicisti norvegesi. 'Inquietum' è una raccolta davvero di difficile ascolto, consigliata ai soli fan della band, considerato che qui si raggiungono vette di estremismo davvero complicate da concepire. Per pochi intimi. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2017)
Voto: 65

https://www.facebook.com/thetruefleurety

domenica 3 settembre 2017

Distant Landscape - Insights

#PER CHI AMA: Prog/Post Rock, Katatonia, Anathema, Riverside
Meglio non trovarsi in un qualche turbine emotivo prima di ascoltare il debut album dei nostrani Distant Landscape, rischiereste di venire sopraffatti dalla malinconica proposta che Marco Spiridigliozzi (mastermind della band) e i suoi compagni hanno prodotto. Io l'ho fatto e quale struggente mal di stomaco ne ho ricavato, lo sa solo il buon Dio. Già, perché dopo aver inserito 'Insights' nel mio lettore e avviato l'opener "Same Mistake", mi sono fatto trascinare da quel senso di sconforto, generato dalla perdita di una persona amata, colpa di melodie strazianti che hanno toccato con facilità le corde già sensibili della mia anima, anche se con sonorità (e vocals), che mi hanno evocato inequivocabilmente 'The Great Cold Distance' dei Katatonia, prima vera fonte di ispirazione dei nostri. Lo struggimento prosegue con le note delicate di "Cage Inside Us", una lunga traccia (oltre nove minuti) che partendo da atmosfere intimistiche, cresce pian piano di ritmo ed intensità, passando da un rock seducente ad un sound più robusto ed incazzato, sebbene mostri poi un finale più equilibrato e psichedelico. "First Insight" si apre con un arpeggio e la voce di Marco che emula con eccellenti risultati, il ben più famoso collega svedese, in una song intrisa di tristezza, soprattutto a livello lirico. Ripeto, meglio non ascoltare il disco se non siete sereni, l'effetto potrebbe essere destabilizzante, qui con la voce di una gentil donzella (Judith dei Raving Season), ad aumentare il carico di sofferenza. L'attacco roboante delle chitarre di "The Desire" lascia intendere un passato doom dei nostri, e quel riffone che chiama in causa gli Anathema periodo 'Pentecost III'/'The Silent Enigma', ne è la prova, anche se poi la tensione si allenta e torna lo spettro dei Katatonia ad aleggiare sui nostri, fatto salvo per chiudersi con una eterea spiritualità che ha smosso anche echi degli Alcest. Ancora un arpeggio in apertura per "The Change", e ancora malinconia grondante da ogni linea melodica che sia di voce o di chitarra, che mi accompagnano fino alla sesta "The Love of a Mother for Her Sons". Quest'ultima è una song che per testi e musicalità, ha scomodato un altro classico degli Anathema, "One Last Goodbye", estratto dal meraviglioso 'Judgement', riletto però in chiave più "moderna", stile 'Weather System', con tanto di voce femminile in primo piano. Al finale, ecco attendermi "Distant Landscape", l'ultima fatica in grado di dare il colpo di grazia al mio cuore già infranto e ora sedotto anche dal suo evoluto rock progressive che strizza l'occhiolino ai polacchi Riverside. Alla fine 'Insights' è un bell'album; se solo i Distant Landscape saranno in grado di acquisire maggiore personalità, scrollandosi di dosso le influenze di Anathema e soprattutto Katatonia, sono certo che sentiremo a lungo e strabene parlare di questi ragazzi. (Francesco Scarci)

(Sliptrick Records - 2017)
Voto: 75

https://www.facebook.com/distantlandscape/

sabato 2 settembre 2017

Captain Quentin - We're Turning Again

#PER CHI AMA: Math Rock Strumentale
È musica decisamente poco scontata (e talvolta anche un po' ostica) quella che arriva dai solchi di questo 'We're Turning Again', fatica numero tre dei nostrani Captain Quentin. È musica irrequieta ma sincera, che ci trastulla con i suoi pezzi strumentali dediti ad un math rock cinematico. Se l'opener non mi ha fatto propriamente impazzire, è la seconda "Caffè Connection" a sedurmi con i suoi ritmi un po' jazzati, i suoi suoni ovattati ed un gusto oserei dire vintage. "Zewoman" è una song più ipnotica quasi al limite del paranoico nel suo finale, mentre con "Malmo" ci abbandoniamo ad oniriche e ambigue sonorità post rock che sembrano aver un effetto rilassante, ma che invece nel loro continuo delirio, stupiscono per il loro ubriacante effetto sulla mia psiche. Non semplice ma suggestivo. Si ritorna a suoni apparentemente più convenzionali con " Avevo un Cuore che ti Amava Franco", titolo per lo meno originale per una song più movimentata delle precedenti ma che mantiene intatta comunque la sua psicotica personalità (qui anche dronica) a sottolineare una performance di carattere da parte di questi Captain Quentin, in un disco che ha ancora diversa carne da mettere sul fuoco. E allora ecco gli sperimentalismi elettronici di "Say No No to the Lady" e di "Aghosto", la prima più orientata a suoni post rock, la seconda invece più oscura e sofisticata nel suo andamento surreale. Il disco chiude con "Yoko, o No?", un evidente gioco di parole che suggella la brillante prova di questi ragazzi con un pezzo spinto verso suoni prog settantiani. Mica male no? Da tenere certamente monitorati. (Francesco Scarci)

Union Jack - Supersonic

#PER CHI AMA: Punk Rock/Ska, Rostok Vampires
Dalla Francia ci arriva un po' di musica scanzonata, questo a testimoniare l'ecletticità della scena transalpina, non sempre concentrata a rilasciare release seriose o all'insegna del black più cupo e nefasto. L'aiuto quest'oggi ci arriva da Parigi e dagli Union Jack che si fanno conoscere, almeno al sottoscritto con il loro quarto album, uscito nella prima parte del 2017 per la Beer Records (un nome un programma) che ci infestano con il loro punk rock'n roll allegro e appunto scanzonato. Per certi versi l'approccio di questi tre ragazzacci di periferia, mi ha ricordato quello di una band che mi ammaliò nel lontanissimo 1989, ossia i Rostok Vampires e il loro mitico 'Transylvanian Disease'. E allora lasciamoci andare alle ben 14 canzoni che popolano questo 'Supersonic', di cui vi citerei la groovy "Blackout", la brevissima opener "Cynical Sound Club" che con un refrain stile "Batman" apre il disco e ci introduce allo ska di "Oh Boogie". "Boomerang" ha un approccio più acido e tosto mentre "Don't Look Back" ha qualche influsso a la Mike Patton e compagni nella sua lucida follia. Insomma 'Supersonic' è più di un discreto lavoro dedito al punk rock. Metteteci poi che è stato mixato e masterizzato da un tizio che si è occupato anche di At the Drive-in e Coheed and Cambria, e potrete capire come questo sia un lavoro di punk con i controcazzi, intesi? (Francesco Scarci)

(Beer Records - 2017)
Voto: 75

https://unionjack.bandcamp.com/

Zuul Fx - Live Free or Die

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Industrial Thrash, Fear Factory, White Zombie
Gli Zuul Fx si sono formati grazie al leader Zuul, ex membro dei No Return. Il genere proposto dai francesi si muove sin dagli esordi tra le maglie di un sound industrial e groovy thrash, dalle sonorità moderne, caratterizzato da un ottimo songwriting, che si rifà palesemente al sound di band “alternative” quali Fear Factory e White Zombie, non disdegnando qualche capatina in territori swedish death, cari a Soilwork e compagnia. La musica dei transalpini poggia su una ritmica devastante e veloce, ma sempre assai melodica e grooveggiante. Undici tracce, con un riff portante davvero pesante, sulle quali si staglia la voce di Zuul, bravo ad alternare il classico growling con clean vocals, spesso abbastanza ruffiane, tanto da aver temuto più volte, l’ascolto di brani dal “vago” sapore commerciale. Alla fine, il quartetto francese non si lascia più di tanto andare a divagazioni commerciali; senza ombra di dubbio, talvolta strizzano l’occhio agli Slipknot e altre band nu-metal, ma cosa volete farci, il risultato finale è godibile e si lascia ascoltare tranquillamente. Niente di originale, sia ben chiaro, tuttavia un ascolto lo darei; se sono stati nominati metal band rivelazione nel 2005, un perché ci sarà anche stato. (Francesco Scarci)

(Equilibre Music - 2007)
Voto: 65

http://zuulfx.net/

venerdì 1 settembre 2017

Sulphur - Cursed Madness

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black/Death, Immortal
Dalle lande sulfuree della Norvegia, ecco innalzarsi la creatura infernale dei Sulphur. Il quartetto scandinavo, che conta tra le sue fila anche l’ex tastierista degli Enslaved, nascono dalle ceneri dei Taakeriket nel 2000 e dopo un mediocre demo, hanno catturato l’attenzione della Osmose, che fiutò, nel quintetto, i potenziali eredi degli Immortal. Dopo aver ascoltato 'Cursed Madness', album uscito nel 2007, posso solo dire che potenzialmente potrebbero anche diventare i nuovi Immortal, ma che la strada è lunga e lastricata di parecchio lavoro. I Sulphur infatti si sono palesate come una band fra le tante nell'intasato e malvagio panorama black/death. La musica proposta dai nostri segue gli stilemi classici indicati prima dai Morbid Angel e poi ripresi dagli Immortal periodo 'Blizzard Beasts'. Una sorta di black metal old school, dalle forti venature death, con qualche inserto tastieristico, forse per voler conquistare quella fetta di pubblico non proprio intransigente e più legato al lato sinfonico della musica estrema, è quello proposto dai nostri. Si tratta in ogni caso, di nove tracce, senza infamia né lode, in cui l’aria che si respira è quella tipica, pesante dei gironi infernali. Fortunatamente, ci sono pezzi in cui i ricami delle keys riescono a conferire all’intero lavoro un aspetto pressoché gradevole, ma sono talmente rari, che rapidamente ci si annoia e si finisce per spegnere lo stereo. Nei 40 minuti di musica contenuti, si susseguono palesemente i richiami agli Immortal, per quel feeling malvagio che solo la band di Abbath e Demonaz era in grado di sprigionare. Penalizzati poi da una produzione ovattata, la band si dimostra comunque più a proprio agio sul versante black che death, segno che forse avrebbero dovuto prediligere un genere piuttosto dell’altro. Da ascoltare e riascoltare, per capire se qualcosa di valido effettivamente c’è. (Francesco Scarci)

(Osmose Prod - 2007)
Voto: 60

https://www.facebook.com/SULPHURBAND