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sabato 9 agosto 2014

Clouds Taste Satanic – To Sleep Beyond the Earth

#PER CHI AMA: Doom, Sunn O))), Dark Buddha Rising, My Silent Wake
Affrontare un album del genere rigenera lo spirito. Niente voci, due lunghi brani di oltre venti minuti ciascuno e una sonorità cupa, nera ma allo stesso tempo carica di una vitalità rock eccezionale. Parliamo di Doom, quello con la D maiuscola, figlio dei Black Sabbath più profondi, caldo e spirituale come i migliori Saint Vitus, riflessivo e d'avanguardia come gli onnipresenti seminali Sunn O))). L'incedere lento non è mai catastrofico anzi, dona vita alla magnificenza del rock, la solennità con cui avanzano le due tracce crea potenza e riflessione, una chitarra a dir poco geniale ci conduce verso strade sicuramente già percorse ma viste e interpretate sotto una nuova luce, come se la band di Iommi volesse rinnovarsi con caratteristiche cinematiche e da colonna sonora di un film fantascientifico ambientato nei meandri più bui della galassia sconosciuta. Il suono è magistralmente rallentato e a dir poco affascinante, desertico, naturale come solo i Karma to Burn sono riusciti a fare nei tempi migliori, la cadenza è astratta e perennemente guidata da una sei corde spettrale che evolve il genere fino a renderlo astrale all'inverosimile e qui entrano in gioco gli insegnamenti di colta psichedelia di Monster Magnet e 35007, viaggi lunari, passeggiate spaziali cariche di malinconia e pesantezza che lasciano pietrificato l'ascoltatore per il progredire filmico e allucinato della musica che non nasconde una certa devozione per gruppi eletti come Skepticism, My Silent Wake o Dark Buddha Rising (anche se alla fine prevale sempre quel tocco vintage anni '70 che li rende unici). Un ottimo debutto per questa super indipendente band proveniente da New York coronata da un suono eccelso e da una grafica di copertina con opera del maestro Giotto a dir poco spettacolare. A voi il rock iniziatico, il rock esoterico per antonomasia! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 80

venerdì 8 agosto 2014

Dogmate - Hate

#PER CHI AMA: Stoner/Grunge
I Dogmate sono un quartetto metal romano, nato nel 2012 e che in breve ha registrato due album, lanciato un paio di video e firmato pure per la Agoge Records. Ottimi risultati quindi ottenuti relativamente in poco tempo, questo a dimostrazione della determinazione dei quattro musicisti che non si sono certamente fatti intimidire dal difficile settore musicale del metal. Ascoltando 'Hate' ci si accorge subito dell'elevato livello tecnico generale della band e della qualità sonora della registrazione, dentro quest'album si trova tutta la scuola degli ultimi vent'anni e i Dogmate scelgono suoni moderni e classici facendo tesoro degli insegnamenti acquisiti con gli anni. La chitarra è corposa (si, una sola ed è devastante a sufficienza) con la giusta equalizzazione e guida i dieci brani dell'album, ma nulla avrebbe potuto senza una sezione ritmica di batteria/basso che viaggia sputando fuoco e vapore a più non posso. Il cantato è potente, mai oppressivo e pesante, il che rende l'ascolto piacevole e dinamico, permettendo di apprezzare i vari arrangiamenti. Nelle parti scream ricorda i Linkin Park, ma ha anche una buona dose di sfumature southern/grunge nei restanti frangenti. "Dark in the Eyes" è caratterizzata da una strofa ipnotica che veleggia su una ritmica altrettanto raffinata, in stile Tool/A Perfect Circle che anticipa il cambio rabbioso dove i riff accelerano e scaricano violenza a profusione. Un brano dalla doppia indole, prima soave e allusivo, poi dispensatore di inaudita cattiveria. Molto bello. Per lo stesso motivo, "World War III" si fa apprezzare per la complessa struttura, che elargisce riff e arrangiamenti in continua evoluzione, senza dare il tempo all'ascoltatore di abituarsi ad un fraseggio che tutto cambia di nuovo. Ribadisco che la sezione ritmica è potente e variegata, doti indiscusse che sottolineano ancora il duro lavoro di produzione delle tracce. Chiudiamo con "Black Swan", ballata guidata da una grande chitarra acustica che crea un tappeto pieno di melodia e sfumature per la voce che duetta all'unisono con le sei corde, il tutto accompagnato da archi che regalano profumi di un luogo epico e senza tempo. Altra prova di tecnica e flessibilità artistica da parte dei Dogmate, che in questo modo abbracciano ancora di più quello che altre grande band hanno fatto in passato. 'Hate' è un disco godibilissimo, ben fatto, che non aggiunge grosse novità alla scena metal nostrana, ma ribadiscono il fatto che ne fanno parte occupando una posizione di rilievo a livello nazionale. Vedremo cosa faranno in altri due anni, a questo punto le aspettative sono alte. (Michele Montanari)

(Agoge Records - 2013)
Voto: 80

Epistasis - Light Through Dead Glass

#PER CHI AMA: Psycho Black Avantgarde
Il mio isolamento tecnologico di questi giorni non mi permette di avere a disposizione tante notizie a proposito delle band che sto recensendo, quindi non posso far altro che limitarmi ad una pura valutazione sotto il mero aspetto tecnico-musicale. Sei i pezzi a disposizione per i newyorkesi Epistasis per presentarsi al mondo (ma soprattutto al sottoscritto). Si parte con “Time's Vomiting Mouth”, una miscela di feroce e schizofrenico black/mathcore che si alterna tra ritmiche ribassate, su cui vomita uno screaming disumano, e alcuni inserti che rallentano l'incedere burrascoso e nevrotico della band. “Finisterre” apre con un lungo e semplice arpeggio che lascia presagire la classica quiete prima della tempesta. Appunto la tempesta. Novanta secondi dopo infatti, ritornano le linee di chitarra sghembe e disarmoniche degli Epistasis e il cantato vetriolico. La musica poi si muove attraverso un'alternanza di luci e ombre, sussulti psicotici e ambientazioni rarefatte di stampo post-rock, in cui mi sembra udire anche il suono di una tromba. L'effetto è intrigante, peccato poi subentri quel fastidioso screaming che rischia di rovinare il risultato finale. Le chitarre di “Witch” ronzano nelle mie cuffie come un fastidioso calabrone, prima di abbandonarsi a un devastante assalto black/grind, che vi saprà sorprendere per un break da lounge bar e ancora per deliranti e taglienti offensive all'arma bianca, in un sound in cui, sebbene la melodia sia totalmente assente, riesce comunque ad avere un effetto magnetico sul sottoscritto. Probabilmente le sperimentazioni avanguardistiche adoperate dai nostri lasciano intravedere spiragli di novità e comunque dimostrano la grande personalità di questi ragazzi, confermata anche dalla successiva “Candelaria”, song ritmata ma che comunque poggia le proprie fondamenta su strutture articolate e imprevedibili, in cui la sorpresa è sempre dietro l'angolo. “Grey Ceiling” è un interludio che ci introduce alla conclusiva “Gown of Yellow Stars”, ultima delirante traccia all'insegna del post-black/free-jazz/math che chiude 'Light Through Dead Glass', disco interessante che palesa qualità e ampi spazi di miglioramento degli Epistasis. Follia allo stato puro! (Francesco Scarci)

(Crucial Blast Records - 2014)
Voto: 70

Cognitive - S/t

#FOR FANS OF: Technical Death Metal, Alterbeast, Psycroptic, Decrepit Birth
The current state of Technical Death Metal has exploded with numerous acts cropping up from around the globe, and these New Jersey newcomers maybe one of the hottest to come along in a while. The potential is shown right off-the-bat as it unleashes a serious swarm of highly-complex and technically engaging riff-work that gets a slew of tight workouts in here that range from fiery, up-tempo Thrash-paced riffing filled with fluid pattern changes at rapid speeds to whirlwind razor-wire wankery that displays untold technical prowess, though the majority of the work is based off dense, heavy breakdowns loaded with brutal chugging in their riff-work, which is what makes this so effective. Each of these particular elements, though utilized by numerous other acts in this genre so this is nothing new or innovative but definitely the variety of what’s on display works so well here since it never stays locked in one formulaic approach for too long before segueing into another dynamic series of riffs full of savage, unrelenting energy and blistering technicality which is certainly impressive enough considering the fact that the tracks are quite short, mostly set in the three-minute range so there’s not a lot of room to work. The energy is delivered through a rather appealing ability to have nearly every song played at the fastest possible tempo it can muster, which is quite often with a few occasional slower sections thrown in which is either a breakdown segment or a light, atmospheric interlude to pick up some melodies within the more blistering segments surrounding them. Combine all these facets with loud, dynamic drumming that manages to hold the technicality as well as the power and speed associated with such genres, more of a heavy, thumping quality to the bass-work rather than the spindly, noodle-like work this style usually plays with and an incredibly powerful production job that keeps the music lines distinguishable yet powerful, clear and commanding which is perfectly in accordance with this type of music and there’s a lot to really like here. The tracks themselves are quite good, as intro ‘Cut the Fuck Up’ gives a great impression of what to expect here with blasting drumming, tight chugging and a series of complex riff-patterns and utterly raging tempos from those technical riffs. Both of the following tracks, ‘The Aftermath’ and ‘Blood Hungry’ rely more on heavy breakdowns in those riffs rather than the technical workouts apparent elsewhere, even though there’s the occasional spindly-based pattern thrown in. ‘World’s Beneath’ returns to quite effective complex riff-work and some more melodic interludes, while ‘Regurgitated Existence’ might be the one showcase track to get exposed to their signature style as this again features the breakdown-centered riffing with ruthless blasting, spindly noodling and a more pronounced effort to switch up the tempos quite well. The first instrumental, ‘Oceanic Erosion’ is a light breather with an acoustic guitar and sampled noises, while ‘Willingness of the Weak’ manages to get those technically-complex leads working alongside the faster tempos. ‘Imbuing of Wrath’ again manages to mix dynamic technical compositions and tight breakdowns together into a stand-out full-throttle effort while ‘Fire from the Sky’ wraps around a slew of ferocious, technical riff-patterns full of intensity and energy throughout while still keeping the melodies intact. The final track, the other instrumental ‘Affliction Humanity,’ has a far better soundscape about it just like the remaining songs with the technically-proficient riffs and blasting drumming sound rather nice before the sampled voices appear and down-grade it somewhat. On the whole, this isn’t really breaking any new ground in the genre and does seem a little weaker on the back-end with the two light instrumentals against the raging music, but it’s still fun enough to be worthwhile. (Don Anelli)

(Pathologically Explicit Recordings - 2014)
Score: 85

sabato 2 agosto 2014

Gnosis of the Witch – Dauðr Burðr Þrysvar

#PER CHI AMA: Black old school
L'intro di "Ek Bjóða Inn​.​.​" non può che generare una sola parola in me... occulti. Questo l'esito del mio primo approccio con il MLp degli statunitensi Gnosis of the Witch che anche con la flebile e tremulante (per l'uso del tremulo picking) “Ormar Eitr” non si discosta più di tanto dall'idea che mi sono fatto dei nostri. Anche quando i nostri accelerano con cavalcate caustiche e caotiche, mantengono inalterato il loro atavico feeling occulto. La furia black divampa come in quei demo tape di primi anni '90 che si ritrovavano nei lugubri circuiti underground del nord Europa. Registrazioni casalinghe, assenza di tecnicismi, ma solo feroci e primitive linee di chitarra su cui si impiantano abominevoli screaming ma che incorpora anche alcuni elementi del dark metal e del pagan. Qualche atmosfera lugubre e pomposa, qualche rallentamento apocalittico, nonché l'uso limitato ma ben azzeccato di affascinanti tastiere, mi inducono a non bollare l'album come obsoleto ma anzi mi suggeriscono di invitarvi addirittura all'ascolto di un lavoro che sembra riaprire vecchie strade black che credevo ormai chiuse. (Francesco Scarci)

(Iron Bonehead Productions - 2014)
Voto: 70

https://www.facebook.com/GnosisOfTheWitch

Blank Faces - A Course Of Infinite Escape

#PER CHI AMA: Post Rock/Progressive, Tool, Porcupine Tree, Isis
Chi mi conosce sa che in questo momento mi trovo in spiaggia a godermi il sole del sud della nostra splendida penisola. Tuttavia anche in riva al mare o sotto l'ombrellone, non smetto certo di ascoltare musica, anzi preferisco riesumare quei dischi che per un motivo o l'altro, ho tralasciato gli scorsi mesi. E' il caso dei polacchi Blank Faces e del loro sound all'insegna del post rock/metal. Cinque tracce, aperte dall'intro di "Adrift", e seguito a ruota dall'ipnotica "Exit: Me", song dall'incipit psichedelico, melodico, oscuro e affascinante, che mettono subito in luce le indubbie qualità del combo di Wrocław. Atmosferici e tribali, i nostri combinano sonorità a la Tool con il post rock sfruttando l'utilizzo di sporadiche clean vocal, per un risultato che a tratti ha del miracoloso. Suoni cibernetici compaiono nell'apertura della strumentale "Degradation", in cui a mettersi in luce è un eccellente lavoro del basso, sorretto poi dai riverberi delle linee di chitarra e da un drumming sicuro ed estroso. L'effetto ha un che di rilassante, ideale per il proseguio della mia vacanza. "The Cleansing Tide" strizza maggiormente l'occhiolino al post metal, almeno a livello della pesantezza delle chitarre, con i consueti richiami a Isis e Cult of Luna ma non solo, perché a echeggiare nella musica dei Blank Faces, ci sono anche accenni progressive di Porcupine Tree o dei conterranei Riverside. Il risultato? Come immaginavo, direi molto buono, per cui sul mio taccuino il loro nome compare già, e sul vostro? Dimenticavo, la chiusura è affidata a "Where to...", song notturna che potrebbe essere estrapolata tranquillamente dall'ultimo album di Steven Wilson. Spero di avervi abbondantemente convinto ad andare ad ascoltarvi la proposta musicale dei Blank Faces, potrebbe essere anche per voi amore a prima vista. (Francesco Scarci)

Cemetery Fog - Towards the Gate

#PER CHI AMA: Death old school, Celtic Frost
Non so molto di questo duo finlandese se non che una spettrale intro apre questo 'Towards the Gate', mini Lp di debutto della band (all'attivo anche tre demo), costituito da cinque pezzi (di cui due sono intro e outro). Andiamo allora a dare un ascolto alle tre tracce vere e proprie di questo dischetto: “Withered Dreams of Death” è la prima song che si affaccia con una chitarra old school, che mostra i suoi richiami glaciali al suono primordiale dei Celtic Frost. L'atmosfera è plumbea, l'incedere lento e minaccioso, il lavoro alle sei corde è sorretto da una tastiera mefistofelica e ingannatrice, mentre le growling vocals si rivelano efficaci nel descrivere sogni di morte. Si tratta di un salto indietro nel tempo di almeno vent'anni, quello che ci regala la musica dei Cemetery Fog e il trend occulto dei nostri si conferma anche con la successiva "Embrace of the Darkness", altra song dai forti richiami retrò ma che comunque sa conquistare per il proprio approccio horror, quasi sulla scia dei King Diamond, ma senza la vocina del "Re Diamante". La song trova addirittura il modo di offrire un bellissimo break acustico, con clean vocals sussurrate e delicate note di pianoforte in sottofondo. Niente male ma anche nulla di nuovo. "Shadow of Her Tomb" è il terzo brano, quello dal piglio decisamente più rallentato e inflazionato. Si tratta infatti di un death doom dalle tinte funeral, in cui compare addirittura la celestiale (ma non troppo) voce di una gentil donzella, il tutto per un risultato a tratti scontato. Poco importa; come opera prima questi errori ci possono anche stare, ma per il futuro cerchiamo di trovare una via più personale di dischiudere il proprio sound. (Francesco Scarci)

Woe Unto Me - A Step Into the Waters of Forgetfulness

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Skepticism, Shape of Despair
Russia, Ucraina, adesso anche Bielorussia: ormai sembrano queste le terre più prolifiche in termini di musica funerea, branca estrema del nostro amato doom. Ancora una volta la Solitude Prod. ci porta su un piatto ossidato ed incrostato di ruggine, una band che ha fatto proprio il vessillo delle lacrime trattenute, del momento limite tra il lasciarsi andare per sempre all’oblio ed il volgere ancora una volta il capo verso l’alto. Gli Woe Unto Me, con il loro debut fresco fresco, regalano questo: un album che contiene poca luce e ancora meno speranza, anche se non completamente assente perché resiste un capillare di melodia a condurre ogni singolo brano, un lamento che tenta di medicare la devastazione di un growl a tratti quasi effettato e riverberato, creando un contrasto molto apprezzabile tra clean vocals (maschile e femminile, per nostra fortuna bypassando il solto dualismo a la “beaty and the beast”) e grugniti. Tutto questo a frantumare ogni singola nota imbastita dalle due chitarre e sorretta in modo marziale da una sezione ritmica che offre comunque una discreta variabilità di tempi, con qualche accelerazione tuttosommato appropriata per spezzare il mood monocromo che permea il disco. Aspettatevi molti effetti, molti intermezzi rumoristici quali scrosci d’acqua piovana, tuoni in lontananza e rumori di passi, a fare da collegamento tra i vari brani, il che forse rappresenta una delle pecche dell’album, per un certo sentore di già sentito, un po’ un cliché del genere che forse varrebbe la pena di abbandonare in favore di un ben più apprezzabile stacco netto tra i pezzi. Sicuramente l’utilizzo delle tastiere e dei sintetizzatori facilità la vita di non poco nel realizzare sonorità così decadenti, ma per quel che può valere, ritengo che questo possa rappresentare la solita nota (ma sempre ben affilata) lama a doppio taglio, perché il rischio di cadere a volte nello stucchevole si avvicina in più di un’occasione (vedasi il finale del pezzo conclusivo), senza però compromettere troppo il risultato finale. I pezzi sono in media lunghi, si parte dai nove minuti e mezzo per arrivare ad oltre i quattordici, con l’eccezione del quarto brano solo strumentale che si aggira intorno ai sette (e forse rappresenta il miglior esempio di utilizzo delle tastiere di tutto l’album, sarà ripetitivo ma tant’è...). In definitiva, questo disco può essere considerato come un valido esordio per una band che dimostra di avere già idee personali e carattere e che deve solo rendersene conto, ma che dimostra di aver compreso la strategia da usare per il futuro: prendere quanto già esiste e rimaneggiarlo a propria immagine e somiglianza. Con qualche riserva ma bene. (Filippo Zanotti)

(Solitude Productions - 2014)
Voto: 70

woeuntome.bandcamp.com

mercoledì 30 luglio 2014

Manthra Dei – S/t

#PER CHI AMA: Hard Prog, Psych
'Ladies and Gentlemen, We are Floating in Space'. Cosí, nel ’97, gli Spitritualized intitolavano il loro indiscusso capolavoro e cosí, oggi, si potrebbe sottotitolare questo esordio del quartetto bresciano Manthra Dei, fuori per la ottima Acid Cosmonaut Records. Non tanto per le affinità stilistiche (invero pochine) con la band di Jason Pierce, quanto perchè la musica contenuta in questo album sembra essere in grado di staccarsi dal suolo e portare l’ascoltatore a fluttuare nelle profondità del cosmo. Di certo i Manthra Dei, di musica, devono averne ascoltata parecchia, in particolare tanto rock anni '70 ma non solo, del genere piú acido e meno terrigno, tale è la ricchezza di suoni, pulsazioni e suggestioni rilasciata dalla loro musica, come una spugna ben imbevuta. L’elemento caratterizzante del loro suono è senza dubbio l’organo hammond di Paolo Tognazzi, sia quando si erge protagonista con assoli acidi e pastosi, sia quando srotola tappeti preziosi per le digressioni dei suoi compari (Michele Crepaldi alla batteria, Paolo Vacchelli alle chitarre e Branislav Ruzicic al basso). Quello dei Manthra Dei è un rock fondamentalmente strumentale, che si colora qua e là di tinte hard, psych o prog, risvegliando un range di influenze e rimandi davvero sterminato, che va dal kraut dei Can ai Pink Floyd di mezzo, dagli Atomic Rooster agli Ozric Tentacles, dai Nice fino ai Deep Purple, dai Tool al prog italico (quello sul versante piú rock e meno jazzato). Ci sanno fare, i Manthra Dei, e l’iniziale "Stone Face" lo mette subito in chiaro, con una frase circolare (che ricorda un po’ quella di "The Wheel" dei Motorpsycho) ripresa piú volte nello sviluppo di un pezzo affascinante, dall’andamento ondivago. Immaginate i Tool catapultati nel 1972. "Xolotl" è invece un hard rock potente, dove il ruolo di guida viene conteso tra la chitarra e un organo acidissimo. "Legendary Lamb" è l’unico brano cantato, peraltro benissimo, dal batterista Michele Crepaldi, e sembra un inedito dei Deep Purple piú groovy, quelli dello sfortunato Tommy Bolin e David Coverdale. A spezzare il ritmo prima del gran finale ci pensa "Urjammer", inquietante suite per organo chiesastico. Gran finale che arriva poi con la monumentale "Blue Phantom", 17 minuti che iniziano con un germe melodico semplicissimo, quasi elementare, per poi irrobustirsi attorno a riff trascinanti, ritmiche complesse e soli di organo effettato, prima di virare verso atmosfere orientaleggianti punteggiate dal glockenspilel, per poi concludersi come una versione heavy dei Goblin di Claudio Simonetti. C’è ancora il tempo per un reprise acustico di "Stone Face", che aggiunge un altro lato ad una proposta già di per sé molto sfaccettata e di portata sicuramente internazionale. Bravissimi. (Mauro Catena)

(Acid Cosmonaut Records, 2013)
Voto: 75

domenica 27 luglio 2014

Epistheme - Descending Patterns

#PER CHI AMA: Death Progressive, Opeth
he botta ragazzi! E' una bella mazzata nei denti quella che si presenta in uscita dal mio stereo quando faccio partire 'Descending Patterns': a divampare è infatti il sound degli EpisThemE, band nostrana che arriva dalla calda Sicilia (Catania) con il loro concentrato di death progressive che giunge al tanto agognanto cd di debutto, dopo gli ormai consueti anni di instabilità di line-up. Sembra infatti che ormai tutte le band un periodo di assestamento ce l'abbiano per contratto, anche se qui di contratto non vi è ancora ahimè l'ombra ed è un vero peccato perchè i nostri lo meriterebbero eccome. La proposta della band sicula è infatti assai affascinante sin dalla opening track, "Eyeland" che parte bella aggressiva, ma tenendo in serbo un bellissimo break acustico in grado di rizzarmi i peli delle braccia di 1 cm. Il perchè presto detto: i nostri rallentano il loro sound roboante per far posto ad un intermezzo che potrebbe esser stato tranquillamente partorito da Mr Åkerfeldt e i suoi Opeth in 'Damnation', con tanto di bellissime vocals pulite e un fantastico assolo conclusivo. Mmm, la cosa si fa interessante anche nella successiva "Erase That Frame" quando la sezione ritmica emula quella dei gods svedesi, mentre la voce di Luca Correnti urla disperatamente, addolcendosi nei momenti in cui la musica stessa, sfodera attimi di calma. Ma il flusso sonico costruito dai nostri è come quello di un fiume in piena, quasi incontrollabile: notevoli sono le spinte elettriche, i cambi di tempo improvvisi, ma altrettanto fantastici sono i frangenti melo-acustici in cui l'ensemble mostra maggiormente la propria classe. Come approccio, 'Descending Patterns' mi ha ricordato quello che riscontrai nel debut album degli Edenshade, 'Ceramic Placebo for FaintHeart': una certa freschezza compositiva, un mare di idee ("Silent Screaming" ne è un fulgido esempio con il suo incedere inquieto, l'alternanza delle vocals - ribadisco eccezionale la pulita - e la parte conclusiva, ottima nella sua sezione solista) e un'eccellente preparazione tecnica che fa degli EpisThemE e del loro album una graditissima sopresa di quest'estate. "Shade of May" è una splendida traccia strumentale in cui emergono tutte le qualità dei singoli musicisti, con il basso di Riccardo Liberti che ben si amalgama con le chitarre del duo composto da Francesco Coluzzi e Enrico Grillo e il raffinato drumming di Daniele Spagnulo. "Blind Side" è una traccia dall'incipit oscuro che evolve linearmente con dei bei chitarroni thrash spinti ad una velocità più sostenuta, in una delle song più normali del disco. Con "Endless Apathy" torniamo ad addentrarci in sonorità più articolate e contorte che si riflettono anche nell'uso delle vocals e di un cupo intermezzo la cui melodia vagamente richiama "My Angel" dei Massive Attack. La chiusura del disco è affidata a "Nemesis", un mid-tempo oscuro e controllato, in cui maggiormente mi rendo conto della produzione bombastica di 'Descending Patterns', che si candida sin d'ora ad essere uno dei miei album preferiti, prodotti in Italia in questo tiepido 2014. Finalmente qualcosa torna a muoversi nella nostra statica penisola, dopo qualche tempo di silenzio. Consigliatissimi. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 80

http://www.epistheme.it/

Kvity Znedolenykh Berehiv – Za Nebokray Mriy

#PER CHI AMA: Death Doom, primi Anathema, Officium Triste
Certo, presentare alla stampa una band dal nome Kvity Znedolenykh Berehiv potrebbe essere un problema, tanto vale traslarlo in inglese e farsi cullare dal romanticismo decadente dei The Flowers of Crestfallen Shores e dall'EP 'Beyond the Horizon of Dreams', molto meglio no? Trattasi di una one man band ucraina, per cui mi piace pensare che, nonostante il tragico periodo che quella parte di mondo sta vivendo, ci sia ancora spazio per dedicarsi all'arte della musica. Due i pezzi inclusi nell'elegante digipack, due song il cui sentiero è tracciato nel doom, genere che va per la maggiore in Ucraina. Il primo brano mette subito in chiaro quali siano le coordinate stilistiche del mastermind di Kiev, alias Dmytro Pryymak: nove minuti di quel consueto death doom atmosferico, costituito da bei riffoni pesanti, growling vocals profonde, qualche discreto passaggio arpeggiato, che può rievocare 'Pentecost III' dei primissimi Anathema, e tanti cambi di tempo a rendere un po' meno scontato l'evolversi del brano. La seconda song si assesta su dieci minuti abbondanti di un sound che si rende ancora più carico di tristezza e disperazione, che forse si rifà per maestosità, agli Officium Triste e che lascia trasparire solo uno stato di desolazione scevro da qualsiasi tipo di speranza. Da segnalare un romantico e tragico break centrale, sorretto da una delicata chitarra elettrica e dalle clean vocals di Dmytro, per una song che evolverà poi verso un ridondante ripetersi del riff portante e da una cavernosa performance vocale. Che altro dire, se non suggerire in primis di vedere tramutato definitivamente il nome della band nella sua traslitterazione inglese, per garantire una maggiore accessibilità del prodotto, soprattutto alla luce della volontà dell'artista ucraino di trovare una etichetta (Solitude Productions?) che ne possa promuovere la musica. In secondo luogo, raccomanderei di rendere molto più personale la proposta della band, che si muove oramai in un ambito a dir poco saturo e per cui probabilmente è rimasto ben poco da dire. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 65

http://uakvity.com/

sabato 26 luglio 2014

Dalla Nebbia - The Cusp of the Void

#PER CHI AMA: Black Epic Progressive, Windir, Enslaved, Agalloch
Apro questa recensione ringraziando Jeremy Lewis e la sua infinita pazienza per avermi inviato due copie di 'The Cusp of the Void', e bacchettando poi le poste svizzere che si sono perse una delle due copie. Comunque mi fa specie (e piacere) trovare una band statunitense che sceglie come proprio nome una parola italiana, Dalla Nebbia appunto. I Dalla Nebbia sono un quartetto del South Carolina che debutta su lunga distanza sul finire del 2013 con questo album di black metal progressivo, che raccoglie in realtà le song del demo ('From the Fog') e dell'Ep ('Thy Pale Form...'), precedentemente prodotti dall'ensemble americano. Andiamo meglio ad inquadrare qual'è la proposta dei nostri: dicevo di black progressive e infatti quando "Dimmed Through the Smoke" fa irruzione nel mio stereo con le sue malinconiche melodie autunnali (perfette per questo periodo), mi lascio travolgere dal suo incedere che trae forte ispirazione in primis dai suoni etno-folk cascadiani degli Agalloch, ma anche dalle produzioni più ricercate degli Enslaved. Insomma mica pizza e fichi, questo a dimostrare che la proposta dei nostri assume una certa rilevanza artistica per i suoi contenuti davvero interessanti e mutevoli. La traccia alterna infatti diversi umori con una linea di chitarra flebile e triste che si stampa nella testa e successivamente muta tra bilanciati slanci black, momenti acustici e altri atmosferici, e infine parti corali da brivido. Ottimo il mio giudizio fin qui anche se dopo il solo ascolto della opening track. Irrompe la furia selvaggia di "Standing on the Precipice", song carica e veloce ma avvolta da un'aura magica ed epica, con lo spettro dei Windir che ammanta la song e la carica di puro misticismo. Sono rapito dalla proposta dei Dalla Nebbia, che si rivelano band dotata di grande intelligenza e capacità tecniche. E dire che le song sono vecchie di 2-3 anni, chissà quindi cosa attenderci dalla maturità compositiva di questi ragazzi. "Thanatopsis" conferma le influenze nord europee per il combo, con una traccia ricca di pathos e maestosità, nonostante tracimi del black metal velenoso e incazzato: ci pensano poi degli intermezzi in cui compaiono strumenti ad arco o break rock progressive, a restituire l'ordine a quell'empio caos sonoro su cui i nostri poggiano, ma solo per alcuni frangenti, la loro proposta. Proseguo con la spettrale "Humanity (The True Art)", song che mostra un ipnotico giro di chitarra a guida del pezzo e un chorus liturgico spezzato dalle scorribande sonore dell'axeman Yixja e dal growling acido di Zduhać (simile per certi versi a quello di Grutle Kjellson dei già citati Enslaved). Le song dei Dalla Nebbia continuano a stupire per la loro ecletticità, la capacità di modulare i propri suoni disorientando non poco l'ascoltatore, offrendo un qualcosa a dir poco fenomenale. Speranzoso che stiate già segnando l'ennesimo nome sul vostro taccuino, "Sovereign Moments" mi concede un paio di minuti di tregua con un interludio acustico che ci prepara a "The Apex of Human Sorrow", il brano più brutale del disco che mostra le capacità guerrafondaie di Tiphareth al basso e di Alkurion dietro le pelli, gli ultimi entrati in casa Dalla Nebbia. Non è solo violenza quella offerta da questa song, ma come sempre ci si imbatte nei consueti break acustici, prima di venire nuovamente mitragliati dalla sezione ritmica esplosiva della band. "Shade of Memory" chiude la serranda con i suoi quasi dieci minuti di tenue atmosfere, sperimentazioni varie e accelerazioni black. Il disco non si chiude qui perchè in serbo ha la sorpresa della cover dei Windir, "Black New Age", song del 2001 contenuta in '1184' che anche nella sua rilettura, conserva intatto quel suo spirito epico e battagliero che resero la band di Valfar davvero unica. Onore ai Windir, onore ai Della Nebbia per aver creato questo splendido 'The Cusp of the Void'. (Francesco Scarci)

(Razed Soul Productions - 2013)
Voto: 85

https://www.facebook.com/dallanebbiamusic