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sabato 8 marzo 2014

Merging With Machines - The Singularity

#PER CHI AMA: Death/Industrial, Fear Factory
Il nome Merging With Machines la dice tutta su quello che può essere il genere proposto dalla band del Wisconsin. "L'unione con le macchine" mi sa infatti molto di suoni cibernetico/industriali e quando attacco il platter nel mio lettore, vengo immediatamente investito da un suono potente, glaciale nel suo lento incedere, cupo anche nella prestazione del vocalist Chad, che insieme al suo compagno Jayson, formano questo enigmatico combo statunitense, di cui non si trovano molte informazioni nella rete, per non dire nessuna. Non è neppure molto semplice l'approccio a questo 'The Singularity', disco scorbutico che si rifà ai dettami dei primi Fear Factory. Un sound massiccio quindi, corroborato da un'effettistica che spesso rappresenta l'elemento vincente dei vari pezzi, o comunque che rende di poco più accessibile la proposta dei nostri due impavidi musicisti. Dicevo che le song non sono cosi immediate nel loro ascolto: stralunate, distorte e angoscianti, offrono spunti interessanti e altri un po' più duri da digerire. "Where Titans Slept" è una corsa contro il tempo dove accanto al growling nerboruto di Chad si accostano anche delle clean vocals (che in altri pezzi si riveleranno decisamente più interessanti come nell'ultima e vincente "Special Access Project 323", granitica ma un po' più varia, la migliore del lotto). "Oblivious" è invece ipnotica, schizoide a tratti, in cui a fondersi è un ipotetico ibrido tra i già citati FF e i folli australiani Alchemist. "They Live We Sleep" è un'altra song in cui forti sono gli echi industrial soprattutto nel suo incipit all'insegna dell'electro sound. Poi, un po' una costante di tutto il lavoro, i nostri avanzano con tono mortifero, come i cingoli arrugginiti di un carro armato portatore di morte. L'effetto assoluto è quello di creare un profondo senso di turbamento interiore che rende più difficoltoso il respiro. Un po' di EBM nella quinta brevissima traccia che ci introduce alla muscolosa e letale "Keyhole Patrol". Fortunatamente, le tracce sono tutte piuttosto brevi altrimenti sarei rimasto schiacciato dalla pesantezza cerebrale dei nostri. Niente male la strumentale "Neurolink Fragmenter" che rispolvera un che dei Nocturnus di 'Thresholds' e la nevrotica "Nerve Circuit Betrayer". Più vado avanti nell'ascolto però e più i neuroni nel mio cervello si intrecciano e l'effetto percepito è quello di una sonora ubriacatura del sabato sera (vomito incluso). La proposta dei Merging With Machine è di sicuro originale, ma certamente non sarà fruibile da un vasto pubblico, ma forse non è l'effetto voluto da questi due misantropi americani. Non me ne vogliano i nostri, ma mezzo voto in meno al disco è legato solo alla sua scarsa accessibilità. (Francesco Scarci)

Lord First - The Wordless Wisdom of Lord First

#FOR FANS OF: NWOBHM, Iron Maiden, Mercyful Fate
Although the words "Lord" and "Fist" are each powerful standing alone, their juxtaposition as "Lord Fist" can be construed as somewhat homo-erotically suggestive, especially considered in the light of the title of the third track, “Velvet Gods” (more on this track below). I don't know if this was the band's intent, i.e., are they first openly gay metal band? If so, in this day and age, I would think that their music should speak for itself regardless, as when Rob Halford publicly outed himself years ago, he amusedly commented that no one noticed his S&M stage regalia (leather and studs) as being derived from the homosexual subculture of the 1970s. Yet he lost no popularity in his standing as the "Metal God" as a result of that personal revelation. I have noticed that vocalist sticks primarily to his lower register except for one high scream introducing the break on "Velvet Gods". It's clear that whoever is handling the vocal chores has a competent singing voice, although most of the melodies are rather monotone, in that regard, and could use some harmonies on the song choruses and refrains—we do hear some of this on “Velvet Gods”, but it sounds like multitracked unison vocals of the same voice, not the harmonious combining of several different voices. Upon later re-listenings I discovered that there actually are some subtle harmonies buried in here, they are the same voice, and they fail to grab the listener’s ear (I couldn’t detect the harmonies until I played the song back through headphones vs speakers in my car). Based on this, I assume that one of the instrumentalists (probably the rhythm guitarist) is also the vocalist? It is refreshing to hear heavy music without the requisite death or black metal percussive growls, which seem to have become de rigeur in all metal subgenres save for power and progressive metal. Even symphonic metal seems to have adopted the juxtaposition of an operatic female vocalist on some verses contrasted against the guttural, neo-percussive vocal growls and rasps which have become so common on so much metal music today. However, that having been said, the vocal timbre doesn't stand out as its own instrument, particularly as the vocals are practically buried in the mix on the first track. This leading track, entitled “Lord of the Night” starts off with a hammered-on riff--removing the pick attack--along with glissando chord accompaniment. It then breaks into a thrash beat, with numerous high speed repeating atonal riffs over the top of the rhythm: almost a 'Maiden meets Slayer meets Dragonforce' kind of vibe, except the overall recording has a very demo-ish sound to it. The drum kit is pretty dry, but the snare, instead of having a sharp 'snap' to it, instead has a 'boxy', amateurish tone, that is distracting from a band trying to present itself as a metal band. The guitar distortion on the rhythm guitars sounds like a weak, early-mid 1960s kind of rock distortion, neither scooped nor having the heavy bottom expected from heavy metal guitars on modern-day recordings. The lead guitar's tone sounds almost like a mild, jazzy overdrive, sort of out of place in these type of compositions. The second track, “Headless Rider” starts off with a drum beat with a bass riff which sounds like an homage to early Paul Di’Anno/Steve Harris-era Maiden. First one guitar starts playing a modal riff, then a second, blends with a twin guitar harmony lines reminiscent of Thin Lizzy. The closing track, “Fire Within”, starts to show the potential of Lord Fist, with more interesting and soulful vocal melodies, than the first three tracks. Also, the riff-progression toward the second half of the song makes a nod to the minor tonalities of classic Sabbath. I’m not sure if “Wordless Wisdom of Lord Fist” is Lord Fist’s first or second release, as I found what was labeled as a demo of theirs elsewhere, entitled “Spark for the Night” which also consisted of four songs. The songwriting and production of “Spark…” seemed more mature than those “Wordless Wisdom….” In any case, the second half of “Wordless Wisdom” seems to contain the better tracks of this release. With an overall improvement in production (updating the guitar and drum tones from the 1960s-era studio sound/1980s basement demo sound), they could well appeal to fans of Maiden, Sabbath, and peripherally, even Thin Lizzy—if they continue to use modal guitar harmonies as a feature in most of their compositions. I think they should continue to shape their style in the vein of classic rock and power metal as that seems to be the niche that fits them best, and this reviewer believes that it is from there that their best material will be yet to come. (Bob Szekely)

(Ektro Records - 2013)
Score: 70

https://www.facebook.com/lordfistlegions

venerdì 7 marzo 2014

Obsidian Tongue - A Nest of Ravens in the Throat of Time

#PER CHI AMA: Cascadian Black, Agalloch
L'Hypnotic Dirge Records continua la sua ricerca nel più profondo underground, alla ricerca di band che abbiano qualcosa di interessante da dire in ambito black metal. Oggi mi soffermo a disquisire sul secondo capitolo della discografia degli statunitensi Obsidian Tongue, che fin dalla copertina hanno richiamato in un qualche modo la mia attenzione. Un viso stilizzato in bianco e nero con (credo) delle penne sulla testa e una simbologia ritualistica che ha evocato nella mia mente un qualcosa dell'immaginario indiano (d'America), mi ha indotto a credere di avere per le mani un qualcosa di estremo contaminato in un qualche modo dai canti e musiche dei pellerossa. La mia fantasia viaggia troppo velocemente perchè quando i nove minuti abbondanti di "Brothers in the Stars" fanno la loro comparsa nel mio stereo, vengo aggredito da una bella scarica di puro e cupo metallo nero che non lascia tregua, non fosse altro per qualche intermezzo atmosferico, che il duo del Massachussets ogni tanto si concede. Con la successiva "Black Hole in Human Form", la band statunitense cambia leggermente registro sporcando il proprio feroce sound con un incedere inizialmente doom. Chiaro che quando i nostri pestano sull'acceleratore, i toni si fanno più aspri e taglienti. I martellanti blast beat della song e gli improvvisi rallentamenti/divagazioni, finiscono per delineare la componente post-black dell'ex one man band di Brendan Hayter. Un arpeggio sul finire della traccia mi concede il tempo di rifiatare, prima di essere inglobato dalla suadente melodia di "My Hands Were Made to Hold the Wind", che mi permette di inquadrare i nostri da un punto di vista differente da quello sin qui descritto. La song infatti è decisamente più tranquilla e rilassata, con un più ampio spazio affidato ad una componente ambient e a sconfinamenti pagan (stile Primordial). Questo non fa altro che aumentare il mio interesse, inizialmente non proprio entusiastico. "The Birth of Tragedy" conferma questo trend, abbinando alla ferocia del black cascadiano digressioni progressive (di scuola Enslaved), per un risultato sicuramente più apprezzabile, dettato anche dall'alternarsi di corali voci pulite a quelle sgraziate del vocalist americano. Diciamo che l'album è altalenante nella sua vivacità, offrendo un songwriting non sempre omogeneo o all'altezza, cosi come devo ammettere di preferire l'ensemble nelle parti più ragionate e rallentate, come accade proprio nel break centrale di "The Birth of Tragedy" che si candida ad essere la traccia più riuscita (e varia) di questo 'A Nest of Ravens in the Throat of Time'. Con "Individuation" e la conclusiva title track, i nostri sembrano raddrizzare definitivamente il tiro anche se qualche calo di tensione è riscontrabile a più riprese. Diciamo che l'album palesa ancora dei difetti di fondo in termini di songwriting, screaming vocals non proprio all'altezza o le talvolta sterili furiose accelerazioni, per cui auspico che i nostri possano individuare ciò che non funziona lavorandoci al meglio per le prossime release, da cui a questo punto, mi aspetterò parecchio. Staremo a sentire. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2013)
Voto: 65

https://www.facebook.com/obsidiantongueband

giovedì 6 marzo 2014

When Icarus Falls - Circles

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna
Quando lo scorso anno uscì il debut album degli svizzeri When Icarus Falls gridai al miracolo. Ora, mi sono procurato il nuovo EP, intitolato semplicemente 'Circles', e di fronte mi ritrovo una band ormai navigata, dotata di classe, intelligenza e idee da vendere. Peccato solo che il dischetto consti di quattro tracce, che comunque mi allietano per quasi mezz'ora di musica (che con il repeat in automobile devo ammettere di aver già consumato). La proposta dei nostri non si discosta poi molto da quanto fatto in precedenza, un post metal esaltante, dalle tinte notturne. “Erechtheion” attacca e mi lascio travolgere dall'intrigante flusso emotivo del quartetto di Losanna e da quel muro sonoro innalzato dal riffing inquieto e tribale dei nostri, accompagnato dai consueti e strazianti vocalizzi di Diego Mediano. Tuttavia, è con "The Great North" che i brividi mi avvinghiano pelle e anima, perchè il suo atmosferico chorus si rivela penetrante e dirompente al tempo stesso, creando un instabile clima che si dipana tra tensione e piacere in un palpitante gioco di luci e ombre. Emotivamente provato, mi metto all'ascolto di "Celestial Bodies", che almeno nel suo incipit si propone di essere celestiale cosi come confermato dal titolo. La song parte delicatamente con le urla sofferte di Diego in sottofondo, sorrette da un semplice quanto mai intrigante giro di chitarra/basso. Poi l'irruenza dei When Icarus Falls si palesa timidamente, ma sono piuttosto le atmosfere post rock ad emergere, su cui questa volta Diego si presenta in versione clean, ma ben presto il sound (e i vocalizzi) sfoceranno nuovamente in una feroce fuga rabbiosa. A chiudere l'EP ci pensa una bonus track, "Nyx", song esplosiva, pregna di malinconie che solo nelle più desolate linee di chitarra dei Cult of Luna ho ritrovato e che non fa che sancire la mia assoluta adorazione (e ammirazione) nei confronti di questi ragazzi. Fenomenali. (Francesco Scarci)

mercoledì 5 marzo 2014

Anomalie - Between the Light

#PER CHI AMA: Black/Depressive Rock, primi Katatonia 
Direi che è una quasi una costante: avere una one man band e fare black (tipico nelle sue forme più di nicchia, post, ambient o depressive/suicidal). Quasi quasi ci provo anch'io, anche se sicuramente non potrò mai raggiungere i risultati eccellenti del factotum di turno, il musicista austriaco Marrok (già negli Harakiri for the Sky), che con il suo ambizioso progetto Anomalie, esce per l'Art of Propaganda con questo ottimo 'Between the Light'. Il lavoro, etichettato qua e là nel web come post black, suona a mio modo di vedere, molto rock nelle sua matrice interstiziale, non facendosi mancare le ovvie ma non cosi frequenti, sfuriate black. "Blinded" apre il lavoro, col suo cupo connubio basso, batteria e chitarra acustica in una ascesa musicale che poco a poco, assume i contorni della cavalcata epica. Largo spazio quindi alle melodie, alle aperture ariose, alle linee di chitarra pulite, interrotte dalla maestosa e selvaggia irruenza del drumming ma anche da uno splendido assolo conclusivo. Notevole anche la voce, che dallo screaming (chiaro e comprensibile) si muove al sussurrato/parlato/pulito, con estrema disinvoltura. "Not Like Others" è un tuffo nel passato ad omaggiare le origini di questo sound nel monumentale 'Dance of December Souls' dei Katatonia. L'abilità del mastermind Marrok è quella di abbinare al black doom, spruzzate di shoegaze o venature depressive rock, senza ovviamente tralasciare la persuasione musicale che il post rock riesce a donare nei suoi intermezzi acustici. Ecco questa song, ma in generale tutto il lavoro, raccoglie influenze più o meno moderne, che derivano da quegli ambiti musicali che più sono in grado di trasmettere emozioni violente, squarci inguaribili nella nostra anima. Non è detto poi che gli Anomalie riescano a centrare perfettamente l'obiettivo, ma il più delle volte ci vanno vicini. "Tales of a Dead City" ci riprova, giocandosi la carta a sorpresa delle eteree vocals femminili che si alternano allo screaming del vocalist e al sound che qui assume connotati neri come la pece suffragato da una violenta tempesta black ma addolcito anche da un ottimo e inusuale strappo di chitarra. "Oxymora" è una song che non ha molto da chiedere, mentre il malinconico pianoforte in apertura a "Recall to Life" e il cantato corale pulito, riescono a catalizzare la mia attenzione sin da subito: la song prendendo questa volta spunto dalle linee di chitarra di 'Brave Murder Day', avanza straziante tra cupe e ronzanti atmosfere e un altro delizioso assolo conclusivo, vero punto di forza e di originalità di 'Between the Light'. A chiudere, una quanto mai inattesa cover dei Nine Inch Nails, "Hurt", band di cui io non sono assolutamente fan e che trovo fuori luogo dal contesto musicale in cui fino ad ora siamo rimasti immersi. Ma che ci fa qui questa song? Mero riempitivo o dimostrazione di sapersi districare anche in territori musicali diversi? Come diceva il buon Dante, "Ai posteri l'ardua sentenza...". Per ora mi limito a dire che l'opera prima degli Anomalie ha quasi colto nel segno. (Francesco Scarci)

(Art of Propaganda - 2014)
Voto: 70

Sidhe - She is a Witch

#PER CHI AMA: Gothic Doom, Paradise Lost, Moonspell, primi The Gathering
Lo scambio dei cd tra band è diventato ormai un appuntamento fisso per noi cultori della musica fuori dal mainstream e che cerca di darsi una mano come può. E così mi ritrovo tra le mani questo 'She is a Witch', album che contiene otto brani frutto di un lungo lavoro (il primo EP vede la luce nel 2006) voluto fortemente dal quartetto di Varese. Sidhe in gaelico significa popolo delle colline o popolo fatato e questo rispecchia il concept di una band che abbraccia il pagan rock, il gothic, il doom e la wicca (celebrazione della natura come forma di culto/religione). Ed è proprio questo modo di essere e suonare che mi è piaciuto assai, dopo tanto satanismo scontato di alcune band finte-black metal e affini, metterci coerenza in quello che fa ripaga sempre. Sin da subito ci si accorge che lo standard qualitativo della band è molto alto: i suoni di chitarre e basso sono buoni, forse qualcosa in più si poteva fare per la batteria, ma sono dettagli. Comunque è quello che ti aspetti da una band matura, che sa quello che vuole e quando entra in studio non si fa prendere dal morbo che colpisce nel momento in cui ti trovi davanti tanta (troppa) tecnologia a tua disposizione. E poi la voce di Tytanja è ammaliante, piena di carattere e pronta a catturare chiunque ascolti almeno una strofa da lei intonata. Ma oltre ai suoni c'è molto altro. Infatti "The Wheel of the Year" apre questo album ed è una traccia ben costruita e sviluppata allo stesso modo. Potente e poetica, dove i riff si accostano perfettamente al cantato e sono lontani dal classico doom tenebroso e opprimente. La giusta dose di ritmica e break che ti appaga mentre le note scorrono potenti e sincere. "L'Incantesimo" è la terza traccia e nonostante la ritmica lenta, ha quella giusta dose di epico che piace, poi incalza verso la fine quando la ritmica raddoppia. La mia preferita è sicuramente la title track: grande riff di chitarra e arrangiamenti ottimamente studiati. Come pure le seconde voci e i break messi al punto giusto per dare tono ad una canzone che può insegnare molto a tante band, anche blasonate. Ho apprezzato anche il fatto che non ci sono voli pindarici fatti di assoli infiniti che alla fine dei conti non lasciano granché a livello emozionale. I Sidhe si distinguono anche perché passano tranquillamente dal cantato in inglese (ottima la pronuncia della vocalist) all'italiano, a volte anche all'interno della stessa traccia e ci sono anche passaggi in una lingua a me sconosciuta (che ipotizzo essere il gaelico). L'album è scaricabile gratuitamente qui : http://gothicworld.bandcamp.com/album/she-is-a-witch e se vi capita di ascoltarli dal vivo, accaparratevi il cd. Bravi ragazzi, ora non fateci aspettare troppo per un nuovo lavoro. (Michele Montanari)

(Self - 2012)
Voto: 75

martedì 4 marzo 2014

Zombiefication - At the Caves of Eternal

#FOR FANS OF: Death metal, Grave, Dismember, Obliteration
Certainly, Sweden’s worldwide reputation as one of the prime instigators of metal in any form has meant that whatever originality exists there will be undoubtedly copied and expanded upon by legions of other acts around the world, which brings us to the Mexican Zombiefication. Taking even a precursor spin through any of these tracks and you’d be forgiven to think this was a prototypical Swedish Death Metal band from the late 90s as the attack employed here is so spot on in regards to the influence and worship of that style that it’s almost an outright crime of thievery. You have the nasty, slicing buzzsaw-like riffs that charge at you like a runaway bulldozer pinched with the right amount of melody to make the attack bearable while pounding drums and thumping bass-lines create an atmosphere of doom and dread that seems ripped from right out of Sweden’s top-secret playbook. There’s a few wrinkles to the formula, though, that whilst not fully original does make for some rather intriguing listening at times. Rather than the traditional Swedish-styled rhythm section that builds off a groovy Thrash pattern with blistering drumming and a clanky bass-line, Zombiefication opts for more of a traditional Death Metal assault that recalls more of the retro death metal movement with the gloomy, cavernous atmosphere, and when merged with those pristine Swedish styled riffing patterns this does have a lot to like about it. Indeed, the album opening title track sets the stage for this one incredibly well with both of those influences in pristine placement to give a crystal clear emphasis on what’s going to happen throughout the course of the album. Other efforts like "Disembodied Souls," "Soul Collector," "In the Gallery of Laments" and "The Crypt" continue on this theme of traditional Swedish Death Metal guitars atop pounding rhythms and creating an overall sense of despair in the atmosphere. Thankfully, we also get a few rather impressive instances of change-ups to break the monotony. "In the Mist" drops the old-school rhythm section and becomes so blatantly Dismember-influenced the band could be held liable for plagiarism, while "In the Shadowed Garden" attempts to pass itself off as more of an atmospheric death metal song with some high-level melodies flowing throughout the blistering punishment delivered. All the while, the plodding atmospheric "Passages into Darkness" really brings down the energy level considerably and makes for a rather disappointing offering that seems like filler until the frantic final half, somewhat lowering this one. Still, this is a solid-enough outing that will definitely please the more discerning death metal fans out there who aren’t so concerned with out-and-out ripping off other bands and focus on how good they are at what they do, as this band does the Swedish sound pretty well. (Don Anelli)

(Pulverised Records - 2013)
Voto: 80

Ethereal Logic - Opus Machina

#PER CHI AMA: Death Progressive/Djent, Meshuggah, Cynic
Non fatevi ingannare dall'esiguo numero di canzoni (4) associate ad un genere, il death metal (notoriamente mai prolisso), contenute in questo 'Opus Machina', opera prima dei britannici Ethereal Logic. Il dischetto dura infatti tre quarti d'ora e il suo effetto è a dir poco annichilente. Niente velocità disumane, ritmiche serrate, o quant'altro, ma un semplice rullo compressore, come quelli che si vedono in giro ad asfaltare le strade. E perfettamente allo stesso modo di quell'asfalto caldo e plasmabile mi sento io, dopo solo aver abbozzato l'ascolto della opening track, "Superior". La track esordisce infatti con un riffing possente e ritmato e il bel growling cupo di James Dorman (abile anche nell'ormai immancabile versione clean). Tre minuti di matrice 'meshugghiana' e poi un quanto mai inatteso break ambient con le chitarre, tastiere e una flebile voce in lontananza a sussurrare qualcosa. Niente paura, sono solo i preparativi dell'act di Glossop nell'invitarci alla loro festa. Il ritmo infatti sembra crescere in modo inesorabile con un riffing nevrotico che sicuramente paga dazio al djent. Ed eccolo un altro stop a creare un senso di ipnosi e angoscia, pronto però a ripartire alla grande per un finale mozzafiato. Wow! Parte "No Gods or Kings", song dal piglio veloce che in un qualsiasi altro album death metal, uno si aspetterebbe non superi i 3.5 minuti. I nostri la pensano invece in modo totalmente differente, prendendoci a bastonate per più di 12, con un sound che alterna un riffing quadrato, meccanico, tecnico e tagliente, che ogni tanto però ha il bel vizio di deviare dalla strada maestra, con elucubranti fuori programma. Non stupitevi pertanto se d'improvviso le rasoiate inferte dal terzetto del Derbyshire interrompano le comunicazioni e i nostri inizino a suonare come se si trattasse di una jam session. Agli Ethereal Logic piace gestire le cose in questo modo, e come dargli torto. Se tutto filasse via liscio come l'olio, ci troveremmo per le mani l'ennesimo clone dei Meshuggah, invece la personalità dell'ensemble inglese risiede proprio in questa sorta di anarchia, che in realtà dura sempre una manciata di secondi, ma che riesce ad avere un effetto destabilizzante per chi ascolta. Un rifferama portentoso in cui si alternano interferenze musicali di ogni tipo: un assolo schizofrenico di basso o uno eccellente di chitarra, un break atmosferico, divagazioni jazz e rock progressive, insomma di tutto un po', che sembra voler ricatturare l'attenzione di chi magari si è lasciato distrarre dal granitico portamento di questo scintillante trio. Io stesso avevo bollato ingiustamente 'Opus Machina' come uno dei tanti noiosi dischi djent-death, ma dopo pochi minuti mi sono dovuto ricredere. E mi raccomando non commettete anche voi il medesimo errore, se vi accorgete che l'inizio di "Incompatible" sembra un banalissimo pezzo di una qualsiasi band dedita al death. Ben presto nelle sue note troverete pane per i vostri denti: i soliti Meshuggah che si incontrano con i Cynic/Gordian Knot sotto lo sguardo vigile dei Tesseract; se le chitarre poi vanno in un senso, la batteria gioca su ritmi dispari, le tastiere disegnano melodie stralunate, capirete le potenzialità di questi folli ragazzi. Sono alla fine della terza song e sapete una cosa, non ci ho capito niente ma sono a dir poco entusiasta di questo lavoro. L'inquietante inizio di "Seven Winters Since" è solo un altro scherzo dei nostri, che sicuramente nel corso di questo album, mostrano di avere un bagaglio tecnico di tutto rispetto e un background musicale che vaga oltre le famigerate 'Colonne d'Ercole' dell'heavy metal. Direi che mi posso fermare nel decantare le doti del terzetto, suggerendovi caldamente di farvi trascinare dagli asfissianti arzigogoli degli Ethereal Logic. Sicuramente una new sensation from the UK! (Francesco Scarci)


(Self - 2014)
Voto: 85

lunedì 3 marzo 2014

Deadly Carnage - Manthe

#PER CHI AMA: Black Depressive Rock, Shining, Primordial
Ritrovo dopo poco più di due anni i romagnoli Deadly Carnage, che avevo recensito in occasione del secondo album 'Sentiero II - Ceneri', descrivendo il loro sound come un concentrato di black metal malato, selvaggio e feroce. Quando "Drowned Hope" fa il suo esordio nel mio stereo, mi aspetto che dietro al suo mansueto avvio si nasconda la classica quiete prima della tempesta. Una delicata chitarra introduce infatti il brano, accompagnata dal tocco leggero del drumming e infine da una voce filtrata in sottofondo. Ma è li dietro l'angolo, lo sento, la minacciosa furia che si andrà ad abbattere sul mio capo. Ma la song singhiozza, sembra essere sempre sul punto di esplodere, ma nulla fino a poco dopo la sua metà, in cui finalmente il male oscura il cielo e mi inghiotte nella gelida notte con un assolo finale da applausi. Forse un po' influenzati dai Primordial, con qualche reminiscenza, almeno nella sofferenza vocale, agli Shining (quelli svedesi), ma l'attacco non è affatto male; poi è il turno della malinconica "Dome of the Warders" (da cui anche un video girato sulle Alpi Venete e sulle Dolomiti) che mi mostra una faccia diversa, decisamente più matura del quintetto di Rimini, che sembra rifuggire da un black metal tempestoso, ma abbraccia sonorità più miti e vicine a primi Katatonia o ai nostrani Forgotten Tomb, il tutto avvolto da un'aura che sa di mistici suoni cascadiani, con tanto di break acustico che mi fa decisamente sobbalzare dalla sedia. SPLENDIDO. Niente da dire, i Deadly Carnage con questo pezzo hanno toccato la mia anima più scura. Un'incorporea danza nella mia meditabonda mente che si lascia trasportare dal flusso di coscienza che permea questo album, percepibile attraverso i suoi suoni e attraverso un eccezionale assolo di flauto traverso. Se il disco finisse qui sarebbe un 10. Ma altre cinque sono le tracce che mi attendono: "Carved in Dust" è una bella e classica cavalcata di metallo nero sporcato da influenze post black d'oltre oceano. "Beneath Forsaken Skies" palesa l'amore del combo italico per un dualismo black doom: incedere lento, costrittore e strisciante prima di un'apertura più melodica, con la sofferente voce di Marcello in primo piano. Registrato, mixato e masterizzato da Mirco Bronzetti al De Opera Studio di Viserba, 'Manthe' si dimostra sicuramente un album intrigante. Il basso di Adres apre "Il Ciclo della Forgia" accompagnato dalle belle chitarre acustiche del duo formato da Dave e Alexios. Il feeling riporta nuovamente al sound pagano di Alan Nemtheanga e soci, il drumming ossessivo di Marco e l'utilizzo della lingua italiana in questo modo, rievocano la mitica "Roma Divina Urbs" degli Aborym. Pollice alto. "Electric Flood" mi sa molto da riempipista, song black punk che in questo contesto ho trovato un po' fuori luogo, sebbene nella sua seconda metà si riprenda non poco. Giungo alla monumentale (14 minuti) e conclusiva title track, in cui i Deadly Carnage ci rigettano nella catartica disperazione, figlia del suicidal depressive black metal del Nord Europa. Ma dopo un paio di minuti, il break di basso che non ti aspetti (che si ritroverà anche sul finire), che rende sicuramente più interessante il brano, che da li a poco, riprenderà a percorrere i binari del black doom, ma con una luce sicuramente più evocativa, espressiva ed epica, complici le chitarre che si inseguono in ipnotici giri fatti di luci e ombre. Ma la song è magmatica, dinamica, un'eruzione di umori e sensazioni che nel loro energico flusso, riusciranno al termine dell'ascolto, a placare il mio animo inquieto, confermando l'eccelsa qualità raggiunta dai nostri, in termini sia compositivi che esecutivi. Deadly Carnage, la sorpresa che non ti aspetti! (Francesco Scarci)

(De Tenebrarum Principio - 2014)
Voto: 80

https://www.facebook.com/DeadlyCarnage?ref=ts

Hola la Poyana! – A Tiny Collection of Songs About Problems Relating to the Opposite Sex

#PER CHI AMA: Blues, Folk acustico, Nick Drake, Elliott Smith
Chi si cela dietro il nickname spagnoleggiante è Raffaele Badas, cantautore sardo dalla voce magnetica e le dita forti. La sua musica è allo stesso tempo ancestrale e modernissima, capace di coniugare il blues pre-bellico, il folk d’oltre Manica e una sensibilità molto attuale, soprattutto nella scrittura e nel modo di cantare. Con alle spalle l’ottimo EP 'Lazy Music for Dry Skins”, arriva oggi all’esordio sulla lunga distanza, facendo praticamente tutto da solo. Ottimo chitarrista, Badas, e allo stesso tempo ottimo cantautore, riesce sempre a trovare il giusto equilibrio tra la sua anima blues e quella più fragilmente pop. 'A Tiny Collection of Songs…' (titolo che non lascia dubbi sul tema trattato dai 9 brani, tutti in inglese) potrebbe essere il disco blues che Elliott Smith non ha fatto in tempo a scrivere, e non credo di essere troppo blasfemo nell’accostamento. Ascoltare per credere, per esempio, quella meraviglia di “Giraffe’s Neck”, con un violoncello che sembra un canto di sirena, la chitarra che si inoltra in territori frequentati in passato da gente John Martyn, e una melodia fragile cantata con un sussurro, oppure “As Time Goes By”, uno dei vertici del disco, stomp blues dalla chitarra tagliente e una melodia gentile. Oppure ancora la splendida “Targets”, pura quintessenza Nick Drake, o ancora la brevissima “Just to Say”, ovvero gli Smiths ai tempi dell’ukulele; tutto si incastra alla perfezione anche nei brani più canonicamente blues, come i riff secchi di “Don’t Leave Me Alone” o “Liar” con una voce metallica, quasi distaccata dal suolo. Resta da dire di “There’s Difference Between Heart and Liver”, delicato stumentale tra Davy Graham e il primo Ben Harper, l’ipnotica “I Must Go” (ancora dalle parti di Drake e Martyn) e la conclusiva “The Best Way to Live”, che affonda le sue radici nell’indie degli anni '90 e che non avrebbe per niente sfigurato in un vecchio disco dei Deus. Ok, il Pozzo dei Dannati è un sito che tratta prevalentemente di musica estrema, ma sono dell’idea che ogni tanto un po’ di decompressione non faccia male e anzi aiuti ad allargare gli orizzonti, e in più credo che un disco come questo non possa e non debba passare inosservato, anzi inaudito, nemmeno alle orecchie del metallaro più incallito. (Mauro Catena)

(Hopetone - 2013)
Voto: 75

Marble Halls - Marea

#PER CHI AMA: Sonorità Post, Cult of Luna, Isis
Mi domando perchè un lavoro del genere debba essere rilasciato solo in digitale e non ci sia nessuna etichetta che voglia puntare su questo notevole quintetto svedese? A chi è allergico agli mp3 (il sottoscritto) 'Area' passerebbe infatti totalmente inosservato; non fosse altro che la gentile band scandinava abbia pensato bene di masterizzarmene una copia con tanto di copertina, e inviarmelo. E io sentitamente ringrazio e mi metto all'ascolto di questo 4-track dedito a sonorità post-metal e post-hardcore. Sapete quanto io sia suscettibile alle sonorità di stampo post- e di scuola nord europea e quindi ho già l'acquolina in bocca. Il platter si apre con le criptiche sonorità di "Sacrifice", che seguendo tutte le indicazioni del genere, ci delizia con chitarroni ribassati e vertiginosi, ritmiche ultra mega cadenzate, break atmosferici e il bel vocione incazzato di Petter Nilsson, che sul finire della traccia si mostra anche nella sua veste pulita. La claustrofobica "The Perfect Drone" è ancora più lenta e melmosa, con un intermezzo acustico che gode di una marcata influenza post-rock e passaggi che sembrano addirittura pescare da 'Forest of Equilibrium' dei Cathedral. La song è lenta, in certi passaggi al limite del doom, ma dotata di una splendida melodia nella sua seconda metà, che riesce ad infondere un certo feeling emozionale. Quando poi il buon Petter si abbandona all'utilizzo delle clean vocals, credo che riesca a rendere ancor più personale la prova del 5-piece di Örebro. Tuttavia è con la "westerniana" "Portrait of Ghost" che i nostri si levano di dosso gli influssi post- dei Cult of Luna e soci, offrendo spunti ricchi di personalità e io non posso che apprezzare e iniziare a spulciare tra i miei contatti se qualcuno possa prendere in considerazione la proposta del combo svedese. "Mended" chiude con i suoi quasi dodici minuti un lavoro assai interessante: una oscura e lenta marcia affidata al drumming marziale di Björn Botvalde, presto raggiunto da tutti gli altri membri della band per una degna conclusione a questo lungo mini album (37 min), che sicuramente merita un po' della vostra attenzione, ma soprattutto quello di qualche intraprendente etichetta. I ragazzi sono nel frattempo sulla strada giusta... seguiteli. (Francesco Scarci)

domenica 2 marzo 2014

Auric - S/t

#PER CHI AMA: Black/Sludge, Altar of Plagues, Mastodon, Iota, Unearthly Trance
La band proveniente da Fayetteville in Arkansas, sprigiona forza da tutti i pori con una pesantezza psichedelica di matrice sludge degna di tale denominazione e solo come pochi riescono ad ottenere. L'artwork del cd, opera di Sebastian Thomas (anche basso e voci nella band) e Bailey Wise, segue la scia artistica rispettabilissima dei capolavori grafici firmati Baroness, anche se musicalmente il quartetto in questione risulta molto più heavy e rivolto a sonorità più estreme tra Iota o Ramesses ed il tutto è filtrato dalla lente progressive doom dei luminari Unearthly Trance. Il disco parte subito con una certa urgenza stilistica ed irruenza postcore metallizzata, poi via via diviene sempre più ombroso, oscurato da una coltre di progressiva nebbia dalle forti tinte avanguardistiche della scuola post black metal guidata da band come gli Altar of Plagues o Deafheaven. Dal terzo brano, "Abrasion", l'album diventa sempre più godibile e interessante, aumentandone notevolmente l'approccio progressivo e fantasioso delle sue costruzioni. La struttura dei pezzi offre molta varietà ed una escursione sonora in continua evoluzione che facilita l'ascolto e lo fa elevare di gradimento soprattutto quando si accentuano le parti più vicine alla scuola Mastodon e i richiami southern/sludge alla Down. Effettivamente "Abrasion" è un'ottima vetrina che mette in mostra tutte le qualità stilistiche della band. Il crossover dei generi già citati e i richiami alle band sopra elencati pervade in tutto il lavoro in maniera positiva e cosa che lo spinge in maniera più decisa verso l'originalità è l'uso di una voce aspra e malata che carica molto sul versante black metal di stampo moderno. Quello che infine risulta più evidente è la volontà degli Auric di traghettare (o sdoganare) il genere sludge verso aperture di altra natura, fino a tentare come nella lunghissima track conclusiva "In Memory", un approccio coraggioso di scuola post-rock senza compromettere il loro stile, mischiato alle cadenze doom space di Zoroaster o Intronaut, ottenendo un buon risultato di suadente psichedelia estrema dalle suggestioni emotive molto forti. Il carico di richiami all'interno di questo lavoro è enorme, ben distribuito e giustamente in equilibrio tra quello che si dice trarre ispirazione e il saper rielaborarne il senso, motivandolo con nuovi innesti e variazioni sul tema. Questo album è un biglietto da visita che merita un inchino! (Bob Stoner)