Cerca nel blog

sabato 11 gennaio 2014

Underdogs - Ready To Burn

BACK IN TIME:

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Kyuss
Gli Underdogs sono un trio nato intorno al 2004 che affonda le sue radici nel movimento stoner/desert rock, genere che tutt'ora ha un bel riscontro a livello nazionale. "Ready to Burn" è il loro primo lavoro (cinque anni or sono) che ha permesso alla band di farsi conoscere al pubblico, grazie anche al supporto della omni presente GoDown Records. Notevoli le collaborazioni degli Underdogs, quali Kyuss, Fugazi, etc., cosi come le ottime parole spese dalla stampa estera. Di ciccia quindi ce n'è, ma non facciamoci offuscare la mente dal buon marketing e ascoltiamo invece come suona questo "Ready to Burn". Dieci tracce (anche se la prima è una sorta di intro) che si librano tra le classiche sonorità desert rock, buona chitarra e sezione ritmica che pompano il giusto e risentono di tutta l'influenza Sleep e Kyuss. L'elemento che diversifica gli Underdogs è la voce, lontana dal classico timbro roco e da uomo vissuto, ma più melodica e rock in stile '70s. Le linee melodiche sono piacevoli da ascoltare e si incastrano bene con gli arrangiamenti, diversificando anche il modo di cantare, rendendo i vari pezzi sempre diversi tra loro. Altro punto a favore è il basso che in tutti i brani non si limita ad essere un mero compagno ritmico tipico del genere, ma diventa spesso protagonista con bei riff introduttivi e break. "Cowboy Style" inizia come una classic ballad un po' malinconica, come un vagabondo che si trascina tra cactus e scheletri di coyote alla ricerca della salvezza. Poi si trasforma e ingrana la marcia alta, aumentando il ritmo e l'aggressività sonora. "You Don't" è il pezzo classico stoner, meno aggressivo nella ritmica, ma più nei suoni distorti sempre grossi e potenti. Pezzo lungo che potrebbe stancare, ma il finale rallenta e ci regala un'atmosfera psichedelica come il ritornello. Buona la qualità a livello di registrazione, personalmente avrei inciso qualche linea di chitarra in più, ma in questo modo l'album è fedele al set up dei live. Direi che come esordio non è affatto male, ora posso passare al prossimo album e scoprire come si sono evoluti gli Underdogs. (Michele Montanari)

(GoDown Records - 2009)
Voto: 70

https://www.facebook.com/underdogstown?fref=ts

giovedì 9 gennaio 2014

*Shels - Laurentian's Atoll

BACK IN TIME:

#PER CHI AMA: Post Rock
Ripeschiamo un vecchio album degli *Shels e diamogli un bell'ascolto: si parte con "Atoll". Un intro dalla voce graffiata a cappella, svincolato dalle sonorità che ascolteremo. Fate piuttosto partire a volume abnorme “Water”. Adesso sì che iniziamo a ragionare. Chitarra elettrica marciante, voce piacevolmente spartita tra acuti e ritmica di quel ritmo che lascia i neuroni convulsi. Un bel vortice a mezz’aria tra il pop ed il rock. Lasciate che vi stupisca prima di passare al prossimo brano. A metà canzone se volete sorprendere chi avete di fronte, mimate l’onda che il braccio fa, nell’invito ad un lento. Poi fatemi sapere com’è finita! Tintinnare metallico ripetuto. Batteria. Chitarra. Ridondanze sfumatamente accattivanti. Silenzio. Ripresa che è solo preludio al proseguo di questo “Ghost Writer” che mano a mano che scorre, osa. Urla. Satura l’aria di impasti dark estremamente stridenti con il preludio. Che dire di “City of the Swan”? Dico che questo ascolto sembra muoversi come pennellate lamentose melodrammatiche su muri invisibili che si rifiutano di riflettere il suono. Dico ancora che se in “Water” il dualismo tra lento e saturo di suoni, mi aveva convinto, qui aspetto che il brano finisca. Ma pare che all’alternaza non ci sia fine. Accendiamo la luce. Passiamo a “Lights in the Laurentian”. Chiunque di voi almeno una volta avrà ascoltato musiche zen fatte per assecondare il silenzio e godersi una sessione di massaggi aromatici. Ragion per cui se vi è piaciuto il genere, vi consiglio questo brano. Tranquilli questo pezzo è monocorda, inizia e finisce allo stesso modo. Niente paura! L’album prosegue, ma senza sorprese. “Fireflystarrs” e”Wing for Their Smiles” sembrano un ibrido tra i due brani precedenti. Veniamo all’epilogo di questo “Atoll”. Dulcis in fundo. “M”. Se vi è piaciuto questo album, abbassate le luci, condite l’atmosfera con candele ed un rum d’oltreoceano, perché quest’ultimo brano vi da suoni e tempo per meditare. Consigliato l’ascolto a chi si sente un giano bifronte. (Silvia Comencini)

Vin De Mia Trix - Once Hidden From Sight

#PER CHI AMA: Death Doom, My Dying Bride, Saturnus
Della serie piccoli My Dying Bride crescono, ecco arrivare dall'Ucraina questi Vin De Mia Trix per quella che è una collaborazione tra gli amici della Hypnotic Dirge Records e quelli della Solitude Productions. Avrete capito che siamo al cospetto della solita band dedita ad un death doom che si rifà sicuramente ai maestri inglesi, ma anche ai danesi Saturnus, con un album che monumentale è dir poco, con i suoi 65 minuti e passa di suoni monolitici, a tratti assai ispirati. "A Study in Scarlet" apre il lavoro con una melodia di forte rimando ai gods della "Sposa Morente", che tuttavia col passare del minutaggio tende ad esasperare toni ed atmosfere, con un sound pesante ma anche assai malinconico, che finisce per sfociare nel funeral. "Nowhere is Here" è un'altra mazzata che lambisce i dieci minuti di durata: lenta, melmosa, disperata e ispirata grazie a pregevoli aperture melodiche che si insinuano in fitti e oscuri meandri di notevole suggestione. Al growling possente si affiancano anche delle cleaning vocals, ma è il break centrale a catalizzare maggiormente la mia attenzione, spostando il mio sguardo sul minutaggio e segnandomi il minuto 4.45 come quello maggiormente degno di nota. Si prosegue con un lungo e superfluo intermezzo dal titolo in francese in cui ad essere al centro sono solo leggeri tocchi di pianoforte. Non so se "The Sleep of Reason" voglia essere un tributo a Goya, fatto sta che la canzone richiama altre realtà nordiche come i Doom:Vs o gli onnipresenti Swallow the Sun. Un'altra song fiume, "Silent World" e ancora umori di carattere depressive che emergono in una song cupa che sfodera tuttavia il più feroce latrato death dell'album e in cui le linee di chitarra omaggiano ancora una volta gli esordi dei MDB, prima che la song si soffermi in un interessante break acustico. Ancora un inutile intermezzo prima dei due pezzi conclusivi che proseguono stancamente sulla falsariga dei precendenti brani con il loro death doom atmosferico. Discreto l'esordio per il quartetto di Kiev, un po' poco però se si vuole attirare l'attenzione di chi è costantemente sommerso da sonorità di questo tipo. Urgono nuove idee... (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records/Solitude Productions - 2013)
Voto: 65

http://vindemiatrixband.com/

Pandemonium - Whispers

BACK IN TIME:

#PER CHI AMA: Death Doom
Dopo il Natale, i panettoni e le abbuffate, torniamo ad assaporare, un bel dolce dal gusto metallico, con le note di questo gruppo svedese (Lund), chiamato Pandemonium, e il loro ultimo ormai datato album 'Whispers'. Il cd è composto da 7 brani; superati i preamboli, immergiamoci nel lavoro dei nostri. Il cd sin dalla prima track “Whispers of the Damned” si fa subito notare per la sua violenza e per le atmosfere cupe che riesce a creare. I riff di chitarra suonano distorti e pesanti, la batteria si presenta brutale cosi come il growling, bello grezzo, anche se non mancano parti di voce pulita. Nota positiva per le parti di tastiera ben studiate e suonate, risuonano malinconiche nella brutalità dei pezzi. Le tracce da segnalarvi: “Organic Pain Collector” per quei suoi nostalgici tocchi di pianoforte, “Behold the Firestorm of Ages” per il suo dualismo ferocia/dolcezza e “Behind The Mask” song dal bel tiro. Queste sono le tracce più rappresentative del cd, nelle quali maggiormente si nota la veemenza e l'oscuro feeling che il cd è in grado di emanare. Unica nota stonata dell'album la mancanza di nuovi spunti, di una originalità assai lontana dalle band di primissimo piano, anche se il lavoro nel suo complesso risulterà comunque un valido esempio di death doom melodico con i classici lunghi pezzi che purtroppo alla fine ci riportano al pensiero “questa l'ho già sentito”, per quel suo sound troppo legato agli stilemi del genere. Mi aspettavo di assaporare una pietanza nuova e mi sono ritrovato a mangiare la solita minestra. Auspico pertanto che in futuro ascolteremo la band in una nuova veste, guidata da un nuovo impulso compositivo. (PanDaemonAeon)

(Self - 2008)
Voto: 60

http://www.pandemonium-metal.com/

Orbit Culture - Odyssey

#PER CHI AMA: Swedish Death, In Flames, Meshuggah, Gojira
Arriva giusto in tempo per essere messo sotto l'albero di Natale del “Pozzo” questa release digitale degli Orbit Culture. Il quartetto svedese non tradisce le proprie origini, proponendoci un gradevolissimo death melodico di scuola prettamente scandinava. La denominazione di origine controllata (e garantita) è confermata non appena faccio partire il player multimediale (per questo non potrò parlare di ciò che concerne artwork e packaging) in cui degli ottimi suoni fanno breccia nei miei timpani, riservando a loro un trattamento per così dire da “bastone e carota”. Precisissimi fraseggi alle 6-corde sfornano melodie molto riuscite che si alternano a batoste sonore create da riffoni in loop da headbanging forsennato; le growling vocals sono ben calibrate e mai fastidiose, il tutto miscelato sapientemente da un lavoro in studio estremamente chirurgico, solido e validissimo. Il lavoro in questione si compone di cinque tracce, più le stesse cinque tracce in versione strumentale (trend del momento a quanto pare, vedere per credere alla voce Evilness) che come ho avuto modo già di dire, consentono di apprezzarne meglio il lavoro “strumentale” ma non danno alcun valore aggiunto; in questo caso nessun problema, perchè bastano le cinque tracce complete di vocals per capire che questo 'Odyssey' è un lavoro ottimo, sotto ogni punto di vista. L'EP, se così lo si può definire, brilla di luce propria, anche se qualche bagliore di luce riflessa arriva da altrove: in alcuni riff si può scorgere la grande influenza degli immensi In Flames di 'The Jester Race', come più in generale i riferimenti a formazioni tipo Gojira e Meshuggah sono evidenti. Essendo ormai diventati veri “standard” del genere, ciò non intacca minimamente il valore di questa release che si mantiene veramente alto. Mi fa un piacere immenso venire a contatto con realtà di formazioni in grado di sfornare lavori di questo calibro, perchè è l'ennesima conferma che in giro c'è un sacco di ottima musica tutta da scoprire. Grande merito a questi quattro ragazzi svedesi per aver prodotto un bel lavoro, per essere in possesso di ottime capacità tecniche e soprattutto di avere delle idee ben focalizzate sul tipo di genere proposto; tra le mie tracce preferite sicuramente compaiono “Wildfire” e “The Planck Distance”, senza scordare la tellurica “The Sparrow”. Signori, qua il voto sarà alto; quando un disco non ha nessuna sbavatura di sorta, tipo questo, è merito esclusivo dei suoi autori. Pollice alto per gli Orbit Culture!!! (Claudio Catena)

mercoledì 8 gennaio 2014

Orob - Into the Room of Perpetual Echoes

#PER CHI AMA: Black Progressive, Samael, primi Katatonia
Un enigmatico intro apre il secondo EP dei blacksters francesi Orob. 'Into the Room of Perpetual Echoes' è un bell'esempio di black progressivo contaminato da sonorità post-metal che consentono al combo di Tolosa di prendere le distanze sia dal movimento post black che da quello più prettamente post metal. "The Pathway" è una song ben bilanciata tra sfuriate black, aperture progressive e fraseggi post, con il vocalist che si dipana tra uno screaming feroce e un cleaning cibernetico. E' forse con la successiva "Marrow" che i nostri mi convincono maggiormente: si tratta di un sound oscuro marcatamente mid tempo, dalle venature elettroniche, che ammicca ai Samael, ma che percorre al tempo stesso un proprio sentiero personale fatto di tempi dispari, improvvise accelerazioni e ritmi sincopati. "Celestial Abandoned" è una dark song estremamente controllata, il cui incedere ha un carattere minaccioso che rimarrà tuttavia tale per tutta la sua durata. Continuo ad apprezzare la performance di Thomas Garcia alla voce, sia nella sua forma granguignolesca che litanico-depressiva. Probabilmente la traccia risulta essere un po' troppo piatta lungo i suoi quasi nove minuti, ma quel suo giro di chitarra ipnotico, suona molto Katatonia era 'Brave Murder Day', il che mi piace e non poco. "Through Roots and Burrows" nel suo liquido inizio ha un tono malinconico e nelle sue note emergono le influenze post rock della band transalpina, prima che irrompa la parte più tirata dell'album, tuttavia si tratta della song che meno mi ha impressionato del disco: piatta e sconclusionata, troppo ancorata ad una tradizione old school, anche se al minuto 5, forte è il desiderio di divagare dal seminato e proporre qualcosa di più sperimentale, quasi avanguardistico, seppur sotto una luce catacombale. A chiudere il lavoro ci pensa "Neptune's Torch", un'altra song dal ritmo tirato (qui l'influenza del post black è palese) in cui vorrei segnalare assolutamente il brillante assolo finale che innalza qualitativamente la valutazione finale di questo lavoro, a cui vi suggerisco di dare una chance per scoprire una nuova interessante realtà musicale, gli Orob... (Francesco Scarci)

(Self - 2013)
Voto: 70

https://www.facebook.com/orobband

domenica 5 gennaio 2014

The Pit Tips: the Best of 2013

Roberto Alba

Summoning - Old Mornings Dawn
Oranssi Pazuzu - Valonielu
Tribulation - The Formulas of Death
---

Conor Fynes

Kayo Dot - Hubardo
Haken - The Mountain
The Ruins of Beverast - Blood Vaults (The Blazing Gospel of Heinrich Kramer)
---

Stefano Torregrossa

Hot Head Show – Perfect
James Blake – Overgrown
The Dillinger Escape Plan – One Of Us Is The Killer
---

Bob Stoner

Norma Jean - Wrongdoes
Voivod - Target earth
Ihsahn - Das Seelenbrechen
---

Brian Grebenz

Blood Ceremony - The Eldritch Dark
Terra Tenebrosa - The Purging
Fates Warning - Darkness in a Different Light
---

Francesco Scarci

Progenie Terrestre Pura - U.M.A.
Cult of Luna - Vertikal
The Black Heart Rebellion – Har Nevo
---

Skogen Algiz

A Winter Lost - Die Langste Nacht
Odz Manouk - Same
Gehenna - Unravel
---

Michele "Mik" Montanari

Pearl Jam - Lighting Bolt
Marydolls - La Calma
Red Fang - Whales and Leeches
 

The Ruins of Beverast - Blood Vault - The Blazing Gospel of Heinrich Kramer

#FOR FANS OF: Occult Black/Death Symph.
Only in regards to a band of monumental calibre like The Ruins of Beverast could I call its latest album arguably the weakest of the four so far, and simultaneously laud it as one of the year’s strongest musical contenders. The Ruins of Beverast have long been black metal’s best kept secret, and since the gloriously psychotic 'Unlock the Shrine', the one-man act- a longtime creative outlet of former Nagelfar drummer Alexander von Meilenwald- he’s been releasing music that’s consistently blown me away for its ambitious scope and atmosphere. Of the three albums The Ruins of Beverast have already released, I have, upon different occasions, thought of each one as potentially being the greatest black metal album ever made. I’ll try to keep background introductions brief, but if you haven’t yet heard 'Unlock the Shrine', 'Rain Upon the Impure', or 'Foulest Semen of a Sheltered Elite', you have yet to hear some of the most impressive and atmospheric metal ever pressed to vinyl. Now completing a transition towards doom metal that began with the last album, 'Blood Vaults' is another expectedly excellent achievement, an hour-plus of music that’s as haunting and crushing as anything I’ve heard in the metal sphere this year. Incredibly high expectations aside, The Ruins of Beverast have delivered another masterpiece of atmosphere and intensity, with enough stylistic innovation to distinguish it from past work. This is blackened doom metal of ferocious quality. The sound of The Ruins of Beverast has evolved beautifully over the course of four albums. Although Von Meilenwald was performing something more along the lines of psychotic black metal in 2004 with 'Unlock the Shrine', each album has reinvented the project as something new. 'Rain Upon the Impure' took the black metal to arrogant extremes of atmosphere and composition, verging on a degree of ambition rivalled by Western classical tradition. 2009’s 'Foulest Semen of a Sheltered Elite' was another necessary reinvention; now that one summit had been topped, Von Meilenwald began infusing his brand of black metal with doom metal and psychedelia. To summarize, it shouldn’t be surprising to anyone that The Ruins of Beverast have drifted this far away from black metal conventions; even if TROB retains the same malefic atmosphere in the music, the means to getting there have certainly changed. The Ruins of Beverast’s familiar blend of choral sampling, chaotic production and cinematic vigour are made anew with a crushing heaviness and funereal pacing. Disregarding the fury and aggression inherent in the music’s execution, Von Meilenwald has taken a relatively reserved approach in writing the music this time around. Especially when compared to the sporadic rapture of 'Rain Upon the Impure', the pacing is kept fairly conservative, offering more vested concentration and fewer surprise turns. Although part of me misses the pleasantly mild shock of hearing something unpredictable, the songwriting enjoys a new maturity through its focus. A stunning example of this can be found in the pristine “Malefica”, a dirge-like piece that meticulously erupts with equal parts dread and melancholy. Latin choirs and pipe organ are used brilliantly as a sonic contrast with the thundering metal instrumentation. Orthodox instrumentation is a painfully common trope in black metal, but it’s rare that it ever functions so well as this. In addition to “Malefica”, “Daemon”, “A Failed Exorcism”, and the unsettling interlude “Trial” all stand out as highlights of the album, and some of the most memorable pieces Von Meilenwald has ever composed. Unfortunately (and this is a first for my experience with a TROB album) I don’t find myself as consistently amazed by each of the tracks. I’m not immune to the fact that a doomier approach entails with it a slower pace and behests a different kind of listening attitude than that of Beverast albums past, but a few of the ideas on 'Blood Vaults' feel less profound and engaging than I’d expect from the band. For instance, “Spires, the Wailing City” and “Monument” are both crafted with excellent ingredients, but feel somewhat overdrawn past their due; the ideas themselves are almost homogeneously superb, but even the strongest structures wither given time. While Von Meilenwald is no stranger to long compositions- 'Rain Upon the Impure' had even longer average track times than this- the sometimes plodding pace of the compositions can make some of the musical ideas feel less awe-inspiring than they actually are. I felt that Von Meilenwald struck a sublime balance between black metal and doom with the last album, a middle ground between crushing heaviness and exciting dynamics. Blood Vaults only sees The Ruins of Beverast tread deeper into doom territory, and while the devastating atmosphere and progressive scope are still here in full, I don’t find myself quite as blown away by this stylistic shift as I have been with his past work. Then again, comparing a pristine mortal vintage to the ambrosia of the gods has never been a fair deal, has it? Although 'Blood Vaults' represents a markedly more reserved take on composition for Von Meilenwald, his execution sounds heavier than ever. I strain myself to think of another guitar tone that has sounded this heavy and crushing. Even though most one-man acts feel fittingly one-sided in their delivery, 'Blood Vaults' feels remarkably well-rounded. The orthodox instrumentation is integrated to a haunting effect, and the drums- Von Meilenwald’s flagship instrument- are as intensely performed as ever. As it is made clear from the opening incantation “Apologia”, Von Meilenwald’s vocals take a hideous life of their own. Laden with echoes and a viciously malevolent tone, his growls are plenty evocative and fit the album’s sinister atmosphere and malefic interpretation of Christian theology. His clean vocals- when used- are deep and ominous, and mirror the Latin choirs nicely. Compared to past albums however, it feels like his vocal delivery offers a little less range however, focusing on the low, echoed growls and dismissing much of his higher shrieks. It’s an understandable transformation however; Von Meilenwald understands the implications of this stylistic shift, and The Ruins of Beverast reflects that. As difficult as it is for me, I feel the only fair way to approach this album is to do one’s best to dissociate it from TROB albums past. Clearly, it’s much harder said than done, but to compare 'Blood Vaults' against its predecessors would reveal this as the least vital of the four. With that in mind, I do not mean or hope to say that The Ruins of Beverast has broken its streak of relative perfection; this is a marvelous work, and I have no doubt that Von Meilenwald will continue to release masterful work in his own time. To put it simply, the album is devastating. (Conor Fynes)

Silentio Mortis - Embalsamado - Natimorto/Illumination

#PER CHI AMA: Doom Occult
Split CD dal Brasile (da Rio de Janeiro, per la precisione) il dischetto in questione, che unisce sotto lo stesso coperchio di plastica i Silentio Mortis, qui con 'Illumination' e gli Embalsamado ed il loro 'Natimorto'. Entrambe le band sono al loro esordio discografico e ci propongono due lavori in realtà molto simili. Questi 44 minuti trasudano doom funereo (attenzione, non funeral!) nota dopo nota, con una certa nostalgia per gli anni ’70, piccolissime presunzioni di psichedelia e qualche strizzata d’occhio ad un ben noto black old-school. A conti fatti, e se piace quel mondo, quanto detto finora dovrebbe lasciar presagire molto di buono ma, sfortunatamente, non è così. Procediamo per ordine: la prima metà del disco è occupata dai Silentio Mortis, fautori di una discreta prova musicale affidata quasi esclusivamente alle chitarre, ma irrimediabilmente rovinata (e non esagero) dalla voce della vocalist. Già, proprio così, quello che poteva essere l’elemento di novità, la chiave di volta/svolta per la band in un genere prettamente maschile, si rivela esserne invece il vero tallone d’Achille. La prova canora (in inglese) risulta sgraziata e disturbante e nulla ha a che vedere con quanto di meglio ci abbia regalato il doom settantiano: cantare sporco NON significa cantare male, punto. Sei track che scivolano via in modo abbastanza anonimo, senza una vera predominanza o elementi di spicco e mi limito solo a segnalare “Sagn” come episodio gradevole in questo marasma, probabilmente perché unico pezzo strumentale. La seconda metà dello split è riservata agli Embalsamado, i quali puntano immediatamente ad alzare il livello del ritmo con pezzi si più tirati e black-oriented (cantati/gracchiati in lingua madre), così come più “impastati” (se mi passate il termine) a causa di una produzione meno elaborata dei compagni di banco, che in ogni caso non faceva comunque impazzire. Se questo sia voluto o meno non mi è dato sapere, ciononostante il risultato non cambia e ancora una volta mi ritrovo sconsolato a scuotere la testa. Insomma, lo ripeto e continuerò a farlo fino alla nausea: sporco non significa brutto!!! Se devo pensare a meravigliosi lavori marcescenti e putridi penso ai Whitehorse o agli Emptiness (e, vi garantisco, mi è aumentata la salivazione al solo pensiero): fate un confronto e vi garantisco che difficilmente vi trovere in disaccordo con quanto affermato. Al pari dei colleghi, anche in questo caso i pezzi si mantengono sullo stesso livello (basso) ed evaporano in pochi istanti come neve al sole. Per concludere: mettersi in gioco e decidere di scrivere un album non è cosa da tutti, pertanto chi intraprende questo cammino solitamente è conscio dell’incertezza del risultato, motivo per il quale non voglio sparare a zero sulle band in questione, ma in tutta onestà non posso nemmeno ritenere sufficiente questo split. Ritengo che ci sia ancora molto lavoro da fare prima di una nuova prova, ma questo è solo il mio parere, per quello che può valere.(Filippo Zanotti)

Satan's Satyrs - Wild Beyond Belief

#FOR FANS OF: Heavy doom
Lace up your boots, fuel up your hog, and blow your mind because you are in for one hell of a wild ride! In 'Wild Beyond Belief' we have a debut from a band that is destined to be a cult, or a gang at least. I must say, it took me quite a while to actually get a hold of a copy of this release, but man is this some addictive stuff. From the moment I heard the band name, saw the sixties biker movie inspired artwork, and took one look at Claythanas in his teal Blue Cheer tee (I have the same one); I could just tell that this was a band made for people just like me. What Claythanas manages to conjure on this gnarly disc is quire the eclectic platter, with the heaviness of metal, the buzzing energy of punk, and the fuzzed out howl of sixties biker rock. It’s a sound that is hard to pin down at first, especially if one is not well versed in sixties music and movie culture, as seen with the other reviewer here. While quite earnest in his attempt, he seemed pretty out of his element. But for anybody that has really delved deep into the history of heaviness, this album is one of the rarest treats of all. While the term punk rock was already in use by the mid sixties, it would be a few more years before anybody called a band heavy metal. However there were already several bands using taking sixties punk/beat rock formula into newer, more ear shattering realms. Bands like Blue Cheer, The MC5, the Stooges, and Davie Allan and the Arrows (to name but a few) were creating music that would be hailed years later as the true foundations for the metal and punk movements that were still years off. And that point is exactly where this album picks up, taking a prototype sixties punk/metal formula and updating it further with elements of the eighties underground sound. The actual sound of the album is quite strange at first, an ultra low, bass heavy mix completely devoid of treble, and clearly meant to blow your system. The muffled tone and constant tape hiss does give it even more of a vintage appeal however, but I feel like most will be thrown off by the mix at first. The bass is also the dominant instrument, carving out thick punky grooves with a tone that mixes Dickie Peterson with Cronos, for a destructive effect. The guitars are a little lower in the mix, but are a total wash of fuzz and wah, not really chuggy but like a punk tone with sixties classic rock influence, and the leads played are in intermingling of those styles. The drumming isn’t really anything special, mostly just propelling the songs, but at least he bashes it out with true force and rockin’ sensibility. Clay’s vocals are pure howling, drenched reverb and soaked in booze and drugs; imagine the aforementioned Cronos trying to track vocals for Fun House by the Stooges! His voice isn’t really impressive but he sings and shouts with pure lust for what hes doing, with plenty of rock star “Oh Yeahs’ and “Alrights.” When all these elements combine, the effect is pure, nitro burning guitar heaven for a music fan like me, but some metal heads may have a problem with just how pervasive the punk influence is on this record. The majority of the songs are fueled by simple punked up rock beats, so the frequent use of similar tempos may irritate some. However, it could be said that most metal bands have a certain tempo that they ride more than most, and here that beat falls right between punked out thrash, and sub-sonic doom. Also the general picking pattern is punky strumming technique quite similar to that of a band like the Misfits (personal favorite). Certain riffs, such as the melodic chorus to “Carnival of Souls have the Fits stamped all over them, so again, metal heads may not like the general riffing style. Riffing like this though was just as common with fuzzy hard rock as it was with punk back in the day though, and there is certainly no shortage of heaviness anywhere on the record. “Bellydancer’s Delight” may have the heaviest riff on the album, with a stomping doomy verse that could have fit a Hellahmmer or Celtic Frost record. But when you hear that creepy organ signaling the Arrows’s esque rave up that is about to conclude the song, the songs shifts into a gear that has more in common with the Yardbirds than Bathory. The album’s awesome title track closes the disk in fine fashion, summing up and bringing out all the elements that make this such a unique record, and with that super retro organ sound, this song just can’t lose, but it also helps that it features some of their best up-tempo riffing, wich leads directly into a guitar freakout worthy of the Velvets, or Vincebus Eruptum. If anything I have written sounds interesting that I highly advise that you seek out this record, because I simple cannot state just how unique of a record it truly is. With all the retro stoner and doom bands going around, it’s great to hear a band that truly understands the harsh sounds of yesteryear enough to actually turn them into something completely true to itself. If you wanna know what Midnight would sound like if they were a sixties biker gang, this may be the closest thing. However, like I said, if you are not well versed in fuzzy acid rock, and if you haven’t seen the Wild Angels, the Devil’s Angels, or Angels From Hell, you may not know what you are getting into. Better yet, if you don’t know Blue Cheer, the Stooges, or Davie Allan and the Arrows, you better do some serious homework! (Nick Ryder)

(Trash King Productions - 2012)
Score: 95

https://www.facebook.com/satanssatyrs

Transient - Transient

#FOR FANS OF: Black, Grindcore, S.O.D.
Solid grindcore replete with blast beats and black metal vocals. Each of the 16 tracks on this release are less than two minutes long, with the opener — “Bottom Feeder” clocking in at less than a minute. Initially, I wondered if Transient were trying to be the Ramones of extreme metal, with their ridiculously short tunes, until I remembered that Stormtroopers of Death (S.O.D.) had been there first. Transient is a band which appears to enjoy punning in their song titles: such as “Praying Mantic”, which opens with a heavy bass/drum groove; “Van Grinder” (perhaps a reference to the National Lampoon movie “Van Wilder”?) and “Big Man Plick” (remember the last “Lethal Weapon” film where Mel Gibson’s character keeps saying to the Chinese restauranteur ‘Flied Lice? Flied Lice??” to which the restauranteur finally responds, “It’s FRIED RICE, you PLICK!!”). “Goad” opens with heavy, distorted bass on top of a thrash beat before the guitars and vocals come in. “False Philanthropy” starts with a slow, doomy riff. “Narcissus Nemesis” kicks off with an ‘all guns blazing’ progression (*nod to Judas Priest*), before going into a chromatic riff. The opening of “Sustain the Yoke” is a solid headbanging / mosh-pit groove. It then pulls back into a slower middle riff before launching back into straight ahead balls-to-the-wall (*nod to Accept*) power thrash, then alternating to riff breakdown with heavy bass. I really do wish that bands would include lyric sheets with these releases, as I can recall in the early days of hard rock/proto-metal—which was pre-extreme-screamo-vox—songs such as the Jimi Hendrix classic “Purple Haze” where he was thought to be singing “Scuse me, while I kiss this guy” (instead of “Scuse me, while I kiss the sky”), and the AC/DC classic “Dirty Deeds” (before original vocalist Bon Scott’s death from alcohol toxemia, which was the inspiration for the Ozzy Osbourne song “Suicide Solution”, referring to drinking oneself to death by accident), where Bon was thought to be singing “Dirty Deeds and the Thunder Chief” (instead of ‘Dirty Deeds Done Dirt Cheap”). If bands don’t want the message of their music to be misunderstood, they shouldn’t leave the correct hearing of their lyrics to chance. Overall, I expect this release to be truly a joy for lovers of grindcore, with irony and attitude permeating throughout. (Bob Szekely)

(Six Weeks Records - 2013)
Score: 90

https://www.facebook.com/transientbrutality

Wombbath - Internal Caustic Torments

#FOR FANS OF: Brutal Death, Incantation, early Morbid Angel, Cannibal Corpse
Among the plethora of death metal releases in the early '90s, at the time when the genre was still new-ground ready to be explored and seemingly everyone went at it with a copy of ‘Altars of Madness’ and a book on Lovecraft, few managed to survive this early pillaging of this genre and are now resigned to the thought of “If only they could’ve followed it up…” much like Sweden’s Wombbath. Dripping with that primordial flavor that landed so many albums in the classic status in terms of tight, vicious guitars that effectively alternate between dense, thrash-based patterns that were found all over the US at the same time or some evocative, more spacious riffs that feel almost doom-like in execution with the emphasis on power over the speed yet mixed in that glorious production job that fills the whole album with a sense of doom and primal evil as if the darkness over the next bend contains a myriad of creatures awaiting for your soul. It’s surprising how evocative this music for this time period as this makes for a stellar album had it been done by seasoned professionals, but as a debut it’s far more powerful than expected with nuances that veterans would make and shows they’ve learned this lesson incredibly well and might even surpass the teachers at select points. Opener "Prevent Anemia" sets off the appropriate tone with a series of fantastic rapid-fire riffs that show a strong ear for deep, guttural rhythms, primal rawness and a vicious streak that would be suitably echoed in further stand-outs "Intestinal Bleeding," "Conceal Interior Torments" and "Several Shapes". "As Silent As the Grave" offers the chance for some stout technicality to creep into the material with more dynamic riff changes and tempo variations than expected, while "Corporal Punishment" starts off a select few tracks like "Performed in Depth" and "Beyond the Gloomy" which contains more of a doom influence with those sprawling riffs and slower paces. A few tracks may be hit or miss with some repeating patterns or a lame riff thrown into the mix, but generally this is among the top-tier mark of the generation of death metal that never found a break and is thankfully available again in a fine re-issue for those that miss the good old days. Mark up a few extra points of the score if you consider the package as well as the song quality for purchasing as you get their entire discography in a demo and EP as well as the full-length which are basically rawer, simpler forms of songs already on this CD (and several in fact are re-recorded on the album anyway) and more for connoisseurs than anything else. (Don Anelli)

(Pulverised Records - 2013)
Score: 90