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martedì 11 giugno 2013

Milk+ - Man on Wire

#PER CHI AMA: Progressive, Space Rock, Mars Volta, Muse
Un gruppo amante delle citazioni, gli austriaci Milk+, a partire dal nome, ripreso dalla bevanda preferita di Alex De Large, protagonista di “Arancia Meccanica”, fino ad arrivare al titolo di questo loro terzo album, esplicito omaggio alla figura del funambolo Philippe Petit, che nel 1974 camminò in equilibrio su un cavo metallico teso tra le Torri Gemelle del World Trade Center, impresa alla quale è stato dedicato un bellissimo documentario dal titolo, appunto, “Man on Wire”. E così come Petit, i tre viennesi cercano di avanzare con passo cauto ma sicuro, in perenne e labile equilibrio tra la classica forma canzone, con strofa, chorus e durata contenuta, e la voglia di sperimentare e andare un po’ oltre ai canoni. Lavoro estremamente curato, “Band on Wire”, dall’artwork ai suoni scintillanti, curati da Isaiah Ikey Owens, tastierista dei Mars Volta, qui in veste di produttore e strumentista in una manciata di brani. E le affinità coi Mars Volta non si esauriscono qui: speso e volentieri, infatti, i Milk+ paiono una versione in qualche modo “normalizzata” della band statunitense; meno schizofrenica e logorroica, in un certo senso meno dispersiva ed estenuante, ma anche, va detto, meno eccitante. Se i Mars Volta innestano il prog su una base post-hardcore e condiscono con spezie latine senza pressochè freni inibitori, i Milk+ risultano un po’ più controllati e meno eccessivi nel loro mix di progressive+alternative+jazz, e stanno sempre bene attenti a mantenere il minutaggio al di sotto della soglia di guardia. Perizia strumentale sugli scudi, quindi, per un rock compresso e ipervitaminico, ricco di sfumature, cambi di tempo e aperture melodiche che lambiscono spesso e volentieri l’epicità di band quali i Muse, ma con un senso della misura decisamente più sviluppato di Bellamy e compagni. I brani sono tutti degni di nota, ma mi piace menzionare almeno “Venus Breakdown” con il suo incedere jazzato e coinvolgente, “The Cigarette's Arsonphobia” (quello dei titoli complicati è un altro vizietto mutuato dai Mars Volta, si vedano anche “Elaptophon” o “Kollaptra”), impreziosita dall’hammond di Owens, e la delicata “Melaforint”, dove spicca la magnifica voce dell’ospite femminile Clara Luzia. In definitiva, “Band on Wire” è un disco riuscito e molto interessante. Dove ancora manca qualcosa per spiccare il definitivo salto di qualità è forse nella scrittura di pezzi che siano davvero indimenticabili e non solo “molto carini”. (Mauro Catena)

(Monkey, 2013)
Voto:75

http://milkplusmusic.bandcamp.com/

sabato 8 giugno 2013

Fortid - Pagan Prophecies

#PER CHI AMA: Black Epic, Immortal, primi Enslaved
L’Islanda, quale luogo misterioso e fatato deve essere quella lontana isola sperduta nell’Oceano Atlantico? Completamente distaccati dal vecchio continente, immagino che gli islandesi non possano godere degli influssi e delle tendenze che imperano sulla terra ferma. E cosi spuntare da quel fascinoso posto, band o artisti strani e stravaganti. Penso alla più famosa di tutte, Bjork, ma anche a realtà un po’ meno famose come Sigur Ros o band molto più di nicchia, come quella di quest’oggi, i Fortid. Fortid che rappresentano il progetto solista di Einar Thorberg, meglio conosciuto come Eldur, musicista di Cursed e Potentiam. Il buon Eldur dopo aver completato la sua personale trilogia iniziale, “Völuspá”, e dopo essersi trasferito in Norvegia, ha stravolto la sua creatura, scegliendo dei musicisti in pianta stabile e da qui la nascita di questo nuovo interessante capitolo, “Pagan Prophecies”. Sette lunghe tracce di black dalle tinte pagane, che spostano le precedenti influenze vichinghe verso sonorità più architettate e progressive, nella vena dei primi Enslaved. Apertura fin da subito affidata alla title track, la song che abbraccia immediatamente la nuova direzione stilistica intrapresa dai nostri, in cui vengono immediatamente sguainate le spade e la danza tribale affidata ad un riffing di chiara matrice black, sorretto da ottime ed impetuose melodie di chitarra. Con la seconda “Spirit of the North” respiriamo maggiormente le atmosfere pagane dell’act nordico, con un feeling ricco di emozionale epicità, affidata a lunghi intermezzi strumentali. Con “Electric Horizon” il quartetto scandinavo torna ad infierire col proprio black fatto di scorribande battagliere, blast beat iperveloci e l’incursione selvaggia interrotta solo dall’eco di una guerra in lontananza ad infrangersi contro il muro sonoro del violento combo nordico. Mi stupisce a fine brano la presenza di uno splendido assolo, cosa assai rara nel black. Un arpeggio introduce “Lesser Sons of Greater Fathers”, la song più tranquilla del lotto, in cui Eldur mette da parte addirittura il proprio efferato screaming, lasciando posto ad una più calda performance vocale, in una song che sa molto di “Twilight of the Gods” dei Bathory. Con “Sun Turns Black” si torna a viaggiare su ritmiche tiratissime, infernali e nere come la pece, con il buon Eldur che torna a rimpossessarsi delle sue diaboliche vocals, e lanciarsi in una roboante cavalcata epica, condita dal classico intermezzo acustico e sorprendentemente da un altro assolo, che mi permette di apprezzare ulteriormente il lavoro della band. “Ad Handan” riparte con gli stilemi classici del genere: intro acustica ad esplodere nella consueta cavalcata black epica, in cui anche i segni oscuri degli Immortal, si alternano nel sound apocalittico dei Fortid, in una lunga ed estenuante traccia. La cupa outro, “Endalok” chiude un album che potrà permettere ai nostri di farsi conoscere un po’ di più nel mondo del black estremo. Convinto tuttavia che con “Endelok” mi trovassi alla conclusione del disco, ecco spuntare la classica ghost track, una ventina di minuti, conditi dai suoni tipici dei temporali che squarciano i cieli più prossimi al circolo polare artico. Glaciali ma epici! (Francesco Scarci)

(Schwarzdorn Production)
Voto: 70

https://www.facebook.com/fortid

Lunarsea - Hundred Light Years

#PER CHI AMA: Melo Death, Dark Tranquillity, Insomnium, Kalmah
Mi sono domandato più volte che fine avessero fatto i Lunarsea. Dopo cinque anni, la risposta l’ho ricevuta inaspettatamente e quando ormai le speranze erano scemate, con “Hundred Light Years”, che ci riconsegna una band in forma smagliante, con la voglia di recuperare il tempo perduto, continuando idealmente il discorso musicale incominciato con “Route Code Selector”, album che accese definitivamente il mio interesse verso la band romana. Dopo i presunti cambi di line-up, uscite e re-ingressi, lo stabilizzarsi della formazione, l’act capitolino fa uscire questo lavoro: trattasi di un concept cd dalle tematiche spaziali, che inizia dando proprio la definizione di anno luce e spiegando che quegli “Hundred Light Years” vorrebbero rappresentare quei momenti in cui le persone si sentono lontano da tutto, dalle loro passioni, dal lavoro e dai propri cari. E il viaggio alla velocità della luce, inizia con la magnetica intro “Phostumous”, a cui segue a ruota l’esplosiva “3 Pieces of Mosaic” che conferma la fedeltà dei nostri al death melodico, di cui i Dark Tranquillity degli esordi e gli Heaven Shall Burn, ne rappresentano la summa massima, anche in fatto di ispirazione, con ritmiche vorticose, chitarre taglienti e un dualismo vocale che lascia solo il chorus alle poco convincenti cleaning vocals del bassista Cristian Antolini, forse vera pecca di un album quasi perfetto. “Next and Future” è un altro pezzo ringhiante, più nervoso per i suoi continui schizoidi cambi di tempo, ma meno aggressivo del precedente, in grado di regalarci uno splendido (ma piuttosto breve) assolo. Ma è con “Ianus” che i nostri iniziano ad impressionarmi: i suoi suoni sono del tutto non convenzionali, pur incarnando sempre lo stereotipo del death svedese. Qui, il quintetto italico alza l’asticella e offre musicalmente parlando, quanto di meglio in Europa si possa trovare in questo momento, sublimando quelli che erano i maestri del genere, i Children of Bodom. Potenza, melodia, ed epicità, permeano in modo gustoso il riffing di questo brano, che finalmente offre un lungo solo conclusivo, che fa rizzare i peli sulle mie braccia in un tumultuoso finale evocativo, spezzato esclusivamente dall’arpeggio di una chitarra. “Sonic Depth Finder” è un’altra sonora mazzata nei denti in fatto di robustezza delle ritmiche, in cui a mettersi in luce è di fatto la prestazione mostruosa dietro alle pelli di Alfonso Corace, soprattutto nell’impetuosa conclusione. Con “As Seaweed”, il sound dei nostri assume connotati più apocalittici, con una ritmica vorticosa e serrata, funambolici stop’n go che non fanno che evidenziare l’enorme potenzialità tecnico compositiva del combo della capitale, il solito connubio vocale e la comparsa, in veste di guest star, di Emanuele Casali (DGM, Astra) e Martin Minor (pianista tedesco), al pianoforte, con un magistrale break centrale, connubio della scuola Dark Tranquillity/Children of Bodom e Kalmah, e nel malinconico finale. Se con “Pro Nebula Nova” si torna a ricalcare i dettami dello swedish sound, con “Aphelion Point” la proposta dei Lunarsea, si infila in altre strade più “alternative”, con la comparsa del bravissimo Tim Charles (Ne Obliviscaris), in veste di ospite, che ci offre un assolo conturbante e romanticamente tragico di violino, una splendida chicca, impreziosita dal successivo assolo di Fabiano Romagnoli. Uno spettrale parlato “Spatia devinco, disiuncta coniungo”, apre la penultima “Palindrome Orbit”, un'altra track in cui a mettersi in luce sono le dinamiche scale in cui ad inseguirsi è il duo di asce, che contribuiscono a donare qui, come nel resto dell’album, un concentrato grooveggiante pazzesco. A chiudere “Hundred Light Years”, ci pensa “Ephemeris 1679”, song dall’apertura maestosa, grazie alle sempre ottime orchestrazioni, un pezzo che ci lancia definitivamente nello spazio siderale profondo pensato dai Lunarsea. Ci mancavate, ben tornati ragazzi! (Francesco Scarci)

(Punishment 18 Records, 2013)
Voto: 80

http://lunarsea.bandcamp.com/music

Frozen Ocean - Trollvinter

#PER CHI AMA: Soundtrack, Ambient, Burzum, Raison D'etre, Elend 
I Frozen Ocean, one man band russa che abbiamo recensito qualche mese fa, ci stupiscono con una colonna sonora interessante ispirata all'opera, in lingua svedese per bambini, “Moominland Midwinter” di Tove Jansson, scrittrice, illustratrice e pittrice finlandese di origine svedese, i cui lavori sono stati tradotti in 38 lingue diverse in tutto il mondo. Vaarwel, ovvero l'artefice di questo cd nonché unica mente dietro i Frozen Ocean, con questa lunga colonna sonora straccia tutto quello che fin qui ci aveva fatto sentire e quindi niente più chitarre zanzarose o ritmi veloci e ossessivi, niente screaming, niente black metal ma una infinita carrellata di suoni, rumori e umori in grigio che guardano all'infinito inverno di cui la storia ispiratrice parla. In questo lavoro dalla difficile collocazione artistica, il nostro mastermind moscovita ha potuto sbizzarrirsi con un'infinità di generi adiacenti al krautrock dei 70's, alla drone music, all'ebm, all' ambient elettronica in generale. Tutto suona con andamento soffice e narrativo, proprio come se ci immergessimo a fondo nel testo, come se stessimo vivendo all'interno della fiaba e come tale, rivivere gli stati d'animo contemplati nel libro. Tutto porta il fondale grigio come lo stupendo fiabesco artwork di copertina curato da Al.Ex (mayhem project), tutto è posizionato a dovere, sia che in esame si prenda la lunga traccia numero cinque fatta di drone tastieristico esasperato e monotono, sia che alla sbarra si prenda la successiva traccia sei, dove il sound cristallino e la venatura claustrofobica/horror portano subito alla mente le grandi colonne sonore dei film di Dario Argento. Vi sono poi esplorazioni nel campo dell'elettronica EBM/synth pop con buoni risultati, magari non innovativi, ma che qui introdotti con moderazione e misura riescono a rendere bene l'idea. In fine altri collegamenti sparsi tra tutti i brani li troviamo con i primi Tuxedomoon, Raison d'Etre, Elend e l'immancabile Burzum nella veste dark ambient. Certamente “Trollvinter” è un lavoro lungo (quarantadue minuti) e impegnativo da affrontare, dai mille risvolti introspettivi, una favola in noir narrata egregiamente con visionaria astrazione ed eterea oscurità, la colonna sonora di una fiaba per adulti abituati ad interagire con la parte nascosta della propria anima. (Bob Stoner)

(Self)
Voto: 70

http://frozen-ocean.net/

Agrion Splendens - Agrion Splendens

#PER CHI AMA: Post Metal/Post Hardcore, Isis, Botch, Long Distance Calling
Primo EP per gli Agrion Splendens, band transalpina proveniente da Toulouse che fa uscire nell’aprile 2013 questo cd dal titolo omonimo per l'etichetta A l'Ombre de Cette Vie. I quattro musicisti votati al post hardcore non smentiscono le aspettative e costruiscono cinque brani densi di tensione e rabbia sciolti nei ritmi psichedelici e taglienti del post a tutto tondo. Il sound alla Isis, al primo ascolto, non deve ingannare (vedi il brano d'apertura “Nihil”), infatti il combo pur mantenendo legami sonori, stilisticamente si differenzia dalla band di Boston e fa subito capire, sin dalla traccia d'apertura, che non è un mero clone e che ha uno stile personale da mettere in mostra, punta moltissimo sulle sue capacità di suscitare emozioni e la costruzione dei brani è completamente votata (e a ragione) al compimento di questo fine. Il tutto fila liscio e perfetto fino alla traccia numero tre, con qualità sonora al di sopra della media, composizioni d'impatto e atmosferiche, a volte prevedibili a volte con virate al progressive e d'ambiente ben concertate e potenti, cariche del giusto spirito d'evoluzione e ricerca che da sempre contraddistingue i migliori esempi di questo genere. L'intensità è perfetta e trasuda un reale senso di rabbia magistralmente interpretato dal vocalist Mathieu che esita solo nel rappato/parlato/cantato pulito del quarto brano dal titolo “Dystopia” che nella fase iniziale fa un po' il verso all'apocalypse pop dei Linkin Park, un'apertura che deve essere meglio proiettata, vista l'attitudine molto più estrema della band francese, in un brano lungo che esplode in un finale al vetriolo e riscatta in parte la sua incerta partenza. Subito dopo si apre lisergica “Embrace the Lie” che chiude il cofanetto con una chitarra da dieci e lode e una cadenza rallentata, maestosa e malinconica, dissonante e tesissima. Sappiamo che nel post core non vi è vita facile e non è più facile essere innovatori, però dobbiamo dire che questo omonimo album degli Agrion Splendens apre ad un buon futuro pieno di speranze per una band che ha diviso a metà la violenza di casa Botch con l'astratta tristezza psichedelica di Long Distance Calling e Intronaut. Album molto coinvolgente! (Bob Stoner)

(A l'Ombre de Cette Vie)
Voto: 70

http://agrionsplendens.bandcamp.com/

Dream Circus - Land of Make Believe

#PER CHI AMA: Grunge/Alternative, Soundgarden, Alice in Chains
Sapete che per me alcuni lavori hanno la capacità di funzionare come una macchina del tempo. Quando li ascolto puff! ritorno nel passato. Questo “Land of Make Believe” mi ha riportato a un periodo dell’adolescenza: gli anni ’90 del grunge, con la camicia flanellata aperta sulla maglietta, t-shirt a maniche corte sopra quella a maniche lunghe, i jeans dai colori obbligatoriamente molto tristi e quell’aria vagamente seriosa ed introspettiva. Ho ricordi combattuti del periodo, così come lo sono le sensazioni dopo l’ascolto dell’album. I Dream Circus devono aver assunto dosi da dinosauro di musica proveniente da Seattle. Di quelle sonorità, di quelle più ruvide, questo CD è chiaramente figlio. Anche troppo. Sì insomma, quegli anni lì sono passati e riproporre pari pari quegli stilemi, mi lascia perplesso. Le tracce non sono male, anzi. Sono dirette, secche e tutte eseguite più che degnamente. Hanno una certa varietà, ma siamo nella scaletta classica di un platter grunge. Alla fine dell’ascolto, però, non sono stato del tutto malcontento. I ragazzi ci sanno tutti fare; la prova del cantante, in particolare, si stacca nettamente da tutto il resto. La sua voce si presta benissimo al genere ed è la parte che richiama di più le loro influenze. Come dite? Volete sapere le mie preferite? Certo, allora “Pulp Fiction” mi sembra la più convincente, si stacca un po’ (un pelino, eh, non esageriamo) dalle altre. Un filo troppo telefonata, ma non malvagia, è “Crown”: caspita qui però si sente troppo il debito verso gruppi come i Soundgarden o Alice in Chains. La meno riuscita è “Poison”, maledettamente scarica. Un disco piacevole, il cui limite è la mancanza totale di un qualsiasi elemento innovativo o particolarmente indicativo della loro personalità. Questo riduce moltissimo la bellezza dell’album e mi lascia con quella sensazione di poco convinto di cui dicevo all’inizio. (Alberto Merlotti)

(Digital Media Records)
Voto 60

https://soundcloud.com/dream-circus/make-believe

Evoke Thy Lords - Drunken Tales

#PER CHI AMA: Stoner, Sludge, Doom, Post-rock
Se vi chiedessi di pensare all’ultimo strumento che vi aspettereste di trovare nella formazione stabile di una band stoner-doom, credo ci siano buone probabilità che la risposta possa essere “il flauto”. Ecco quindi un primo motivo di interesse che spinge all’approccio con questo combo siberiano, al loro secondo lavoro dopo, come si legge nelle note disponibili in rete, una longa pausa che ha portato ad un radicale cambiamento nel suono, partito da basi di doom/death melodico, per approdare al curioso e originale ibrido racchiuso in questo cd. Già la copertina ha un che di allucinatorio, con un astronauta – tributo nemmeno troppo velato ai grandissimi Sleep – intento a prendersi una solenne sbornia seduto a un bancone di cui voi siete il barista, che sembra sul punto di raccontarvi la propria vita. Quello che si ascolta nel corso dei quattro lunghi brani che compongono il lavoro è un mix inaudito di classici riffoni stoner-doom (l’opener “Routine of Life”), parentesi bucoliche e quasi trance, dominate dall’effetto straniante del flauto (“Dirty Game”), e digressioni post rock lente e circolari (“Dregs”). A complicare le cose ci si mette una cantato growl ultratombale, tenuto però ben sepolto nel missaggio, tanto che l’impressione finale è quella di avere a che fare con un disco strumentale. Detto così mi rendo conto che potrebbe sembrare un pasticciaccio, ma ben presto vi sorprenderete ad abbandonarvi al flusso ipnotico che sgorga dai vostri speaker, trasportati da una corrente lisergica e multiforme. Rimane da dire di una bonus track (“Cause Follows Effect”), anch’essa molto lunga, che si distacca dall’atmosfera del resto del disco (e risulta anche meno interessante, almeno per i miei gusti) rimanendo ancorata a stilemi doom/death più classici, nella quale il cantato cavernoso è affiancato da suggestive voci femminili e tappeti tastieristici. In definitiva, quindi, un lavoro molto originale, nel quale forse è insito il pericolo che l’effetto sorpresa si esaurisca in fretta, costringendo la band russa ad aggiustare nuovamente il tiro in futuro. Ma per il momento va bene così. (Mauro Catena)

(Solitude Productions, 2013)
Voto: 70

http://evokethylords.bandcamp.com/

sabato 1 giugno 2013

Blood Red Throne - Blood Red Throne

#PER CHI AMA: Brutal Death, Malevolent Creation, Cannibal Corpse
I Blood Red Throne se ne fottono di tutto e di tutti: delle mode, delle novità e di qualsiasi altra cosa. Loro da 15 anni, cosi come Cannibal Corpse e Malevolent Creation (nomi non scelti a caso) da 25, continuano a pestare di brutto con il loro integerrimo brutal death, che con l’album celebrativo omonimo, giungono alla fatica numero sette, attraverso un feroce atto di forza e superiorità all’interno del panorama estremo europeo, alla pari solo con i Behemoth. Come al solito, il quintetto ormai guidato dal solo Død, vista la dipartita del “socio” Tchort prima di “Brutalitarian Regime”, si diletta sparandoci letteralmente sui nostri musi, nove ruvide tracce di uno scellerato death metal, nella sua forma più tenebrosa, ma tuttavia ricca di splendide aperture chitarristiche. “Soulseller”, “In Hell I Roam” e “Hymn of the Asylum”, rappresentano il mortifero trio di brani posti in apertura dell’album, contraddistinto da un rifferama ribassato, un blastbeat indemoniato, cavernose growling vocals (che fanno da contraltare a uno screaming acido), ma anche dotato di raffinati assoli e ottimi fraseggi. Non siamo certo di fronte a dei pivellini, anzi, i Blood Red Throne confermano la loro nomea di essere degli spaccaculi di prima categoria e lo dimostrano ampiamente con i fatti e con una perizia tecnica a dir poco invidiabile. “Primitive Killing Machine” ha un incedere piuttosto ritmato quasi thrash metal, dotata di un bel bridge centrale che lascia intravedere una parvenza di melodia centrale; ”Deatholation” torna a spaccare che è un piacere, pur non aggiungendo nulla di nuovo alla band scandinava e spingendomi a skippare al brano successivo, “Torturewhore” che mi violenta per la sua schizofrenica ferocia. Ubriacanti stop’n go, asperità dettate dai cambi di tempo, il grondante groove che permea tutti i brani e le tremende rasoiate inferte dalle laceranti chitarre, contraddistinguono questo nuovo inossidabile lavoro dei sempre più inossidabili Blood Red Throne, che ancora una volta si confermano alfieri del brutal death made in Europe. Una conferma! (Francesco Scarci)

Crown - Psychurgy

#PER CHI AMA: Drone, Post, Sludge, Industrial
Ecco una new sensation che uscita dal nulla nel febbraio del 2012, in poco più di un anno è entrata di diritto nella schiera di band di cui attendevo con grande trepidazione il full lenght, dopo l’EP d’esordio “The One” e lo split EP in compagnia degli STValley. I francesi Crown sono tornati più in forma che mai, freschi di un contratto importante per la sempre più potente Candlelight Records e un album veramente strepitoso, che porta avanti il discorso iniziato con “The One”. Con “Psychurgy” mi trovo catapultato all’interno di un tunnel, di quelli alpini, lunghi decine e decine di km. Il senso di claustrofobia è già forte sin dal brano introduttivo che ci introduce ad “Abyss”. Il senso di angoscia inizia minaccioso ad affiorare, mentre percorro quella galleria di cemento armato che sorregge migliaia di tonnellate di terra e roccia pura. E la robustezza di quel cemento armato potrebbe essere equiparato alle chitarre del duo formato da Stephane Azam e Pascal Guth, mentre la matematica drum machine assume più i connotati del regolare alternarsi delle luci all’interno della galleria. Le vocals si alternano tra il cibernetico e un magnifico growling industriale, mentre il sound si espande e comprime come un buco nero che ingoia materia oscura. “Blood Runs” è un capolavoro di musica che tra sonorità post, doom, drone, sludge e industrial, sublima la proposta di questo magnifico ensemble transalpino. Ancora una volta, mi ritrovo estasiato di fronte agli incombenti suoni prodotti dai Crown, a quel flusso emozionale, a quel mare di lava sinuoso e a quell’autentico muro sonoro, già descritto nell’incipit della precedente recensione. I Crown nel loro gelido incedere marziale, risultano stranamente caldi, con delle melodie al limite del malinconico che mi fanno rabbrividire. Mostruosi, non so che altro dire. Fenomenali, anche perché nonostante le lunghe durate dei brani, non trovo un momento di empasse che faccia calare la mia attenzione. Sono sempre concentrato infatti nel percorrere quel famoso tunnel iniziale, ipnotizzato dalle luci per aria, e focalizzato con l’orecchio anche al rumore prodotto dall’attrito delle gomme della mia auto sull’asfalto. Tutti i rumori e i suoni si enfatizzano nel mio cervello cosi come all’ascolto di “Empress: Hierophant”, dove la mia mente è totalmente rapita dall’effettistica di fondo che popola il sound del duo francese. Menzione finale per “Alpha: Omega” che sembra più un pezzo fregato ad una band black old school che al cibernetico suono dell’act di Colmar. Lisergici, oscuri, psichici, malati, ossessivi, paranoici, criptici, deliranti, ritualistici, scioccanti, apocalittici, pachidermici, mistici: sono solo alcuni degli aggettivi che ho trovato per definire le coordinate stilistiche di “Psychurgy”, che si colloca fin d’ora tra i miei album preferiti di questo 2013. (Francesco Scarci)


(Candlelight Records)
Voto: 85

http://crownritual.bandcamp.com/album/psychurgy

Myridian - Under the Fading Light

#PER CHI AMA: Death/Doom, Swallow the Sun, Draconian
Con questo cd non poteva andarmi peggio: capisco che la strada dall’Australia all’Italia sia abbastanza lunga, ma ritrovarmi tra le mani, per la seconda volta un disco argentato che non fa il suo dovere, inizia a diventare piuttosto fastidioso; per di più anche il booklet del cd sembra esser stato inzuppato d’acqua. E allora rivolgiamoci ancora al fatato mondo di internet per ascoltare questa release, che si apre con i tocchi di pianoforte di “Passage”, che si collega immediatamente alla successiva “To the Dying Sun” per la sua melodia di fondo, con la proposta del combo australiano che lascia immediatamente intravedere quale direzione musicale il disco si appresti a intraprendere. Siamo nell’area del death doom, ricco di pathos e atmosfere, anche se la voce di Felix Lane ricalca piuttosto quella degli esordi dei Katatonia, un po’ aspra. Il five-piece di Melbourne colpisce sicuramente per l’emozionalità che riesce ad esprimere ed imprimere con un pezzo che, nonostante una sezione ritmica comunque non certo leggera, mette in scena un sound che ha la forte capacità di conquistarmi per le sue deprimenti melodie, quasi tipicamente nord europee. Siamo nella zona appunto cara alla band di Blakkeim e soci, dei loro conterranei Draconian o dei finlandesi Swallow of the Sun. I pezzi sono tutti piuttosto molto lunghi: dopo gli otto minuti abbondanti della seconda traccia infatti, ecco i nove di “Veil of Sorrow”, con un’inedita performance vocale, con il chitarrista Josh Spivak in versione totalmente pulita, a duettare con Felix che si alterna tra un growling assai convinto e uno screaming un po’ più arcigno, mentre le chitarre, sorrette da un drumming mansueto, dipingono paesaggi desolati. Non avremo certo per le mani un qualcosa di originale, tuttavia “Under the Fading Light” si lascia piacevolmente ascoltare, anche se talvolta si scade nella ripetitività di fondo di alcune linee di chitarra o arpeggi. La freschezza dei Katatonia di “Dance of December Souls” o ancor di più di “Brave Murder Day” sono ancora assai lontane, eppure i Myridian sanno intrattenere i propri ascoltatori grazie a pezzi interessanti, in cui talvolta riescono a manifestare una propria personalità o offrendo qualche spunto di una certa rilevanza, laddove a diventare dominante è invece il pianoforte, come nella oscura title track o nella malinconica “Starless”. Le tracce però alla fine, finiscono per assomigliarsi un po’ tutte e questo alla lunga fa un po’ scemare l’interesse nei confronti di un disco che fino ad un certo punto mi aveva convinto appieno. Complice sicuramente la lunga durata dei pezzi, la loro monoliticità e la mancanza di qualche variazione al tema, mi fanno propendere a mezzo punto in meno nella mia valutazione complessiva dell’opera. Tuttavia, chi ama il genere, un ascolto a “Under the Fading Light”, come minimo dovrà sentirsi obbligato a darlo. (Francesco Scarci)


The Pit Tips

Bob Stoner

Pavlov's Dogs - Pampered Menial
Immolation - Kingdom Of Conspiracy
Cathedral - The Last Spire
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Francesco “Franz” Scarci

Consecration - Cimet
Apocynthion - Sidereus Nuncius
Entropia - Vesper
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Alberto Merlotti

Daft Punk - Random Access Memory
Gazebo Penguins - Raudo
Escape the Faith - Ungrateful
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Samantha Pigozzo 

Amorphis - Circle
Velvet Goldmine - OST
Depeche Mode - Ultra
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Michele “Mik” Montanari

Deville - Hydra
Alice In Chains - The Devil Put Dinosaurs Here
Cathedral - The Last Spire
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Roberto Alba 


Dark Tranquillity - Construct
Thaw - Thaw
Lantern - Below
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Stefano Torregrossa 


Dark Buddha Rising - Ritual IX
Clutch - Earth Rocker
Gojira - L'Enfant Sauvage
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Mauro Catena 


Motorpsycho - Still Life with eggplant
Motorpsycho - Blissard Deluxe Edition
Rokia Traorè - Beautiful Africa
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Kent


Baroness - Red Album
Disfear - Live The Storm
Solitude Aeturnus - Into The Dephts Of Sorrow