Cerca nel blog

Visualizzazione post con etichetta Damiano Benato. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Damiano Benato. Mostra tutti i post

lunedì 11 giugno 2012

Funeral Mourning - Drown in Solitude

 #PER CHI AMA: Black Funeral Doom
Non c’è nessuno qui intorno. Fuori dalle finestre una leggera pioggia ticchetta insistente contro il vetro. È da poco passata la mezzanotte e la luna non si è ancora presentata. Quando “Winds of Unknown Existence” inizia, ho l’impressione che strane figure nel buio si facciano avanti per ascoltare la canzone insieme a me. Non sono più solo. “Drown in Solitude” è una Via Crucis ristretta in cinque tappe dall’andamento lento e misterioso, una marcia funebre verso l’esilio eterno (“Sounds of a Dreary Sea” è la “The Light at the End of the World” di questa band). Tematicamente, l’album affronta il sentimento di morte nei suoi più svariati aspetti: sociale, spirituale, animale, trascendentale; meno violento ma più macabro de “La Grande Danse Macabre” dei Marduk (sebbene il genere diverga, i temi sono affini). La genesi Funeral Mourning affronta, mostrando incontestabili capacità artistiche, un suono che si situa a metà tra un depressive black metal di taglio armonico e un funeral doom basato più su melodie di singole note che feroci serie di pesanti accordi. Anche la voce staziona a metà tra growl e screaming. La traccia più rappresentativa dell’album è senza dubbio la title track; in sé germogliano i frutti di ogni variante presente nel resto del disco: sofferenti introduzioni (quasi) monocorde, deboli elementi ambient, evoluzioni in distorsione, melodie di base riprese e variate. Come sempre, in questi casi parla il cuore. “Drown in Solitude” sviscera dall’interno il cervello dell’ascoltatore, lo avvolge in un manto di lino e lo accompagna verso l’ultima, fredda tappa. Ci si affeziona a queste musiche. Le si fa proprie. Oltretutto, all’interno del booklet, è presente una concisa riflessione sul perché è stato deciso di intraprendere la strada di un album dedicato alla morte. Consiglio vivamente di prenderne atto prima di procedere all’ascolto. Come aveva suggerito Fernando Ribeiro nei suoi Moonspell: “Silenzio e Rispetto”. (Damiano Benato)

(Goatowarex)
Voto: 90
 

sabato 19 maggio 2012

Blutklinge - Ahnengeist

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal, Nargaroth
Questa è una radicale vendetta contro tutte le forme corrotte della civiltà moderna. Otto tracce che si addentrano nel dolore musicale più assoluto, una nenia di maledetta sofferenza che batte al posto del cuore. “Ahnengeist” è spirito indomito, è solitudine estrema, è trovarsi nel mezzo di una folla e urlare l’assenza completa di ogni emozione. “Ahnengeist” è lo stadio finale del suicide-depressive black metal, la porta verso l’annullamento totale del proprio io. Sono sicuro che Nietzsche sarebbe stato felice di poterlo ascoltare. Questa demo del 2006 è l’apogeo di un metal pervaso da un decadente senso di abbandono, avvolto da melodie che integrano vere e proprie ballate black in un ricordo lontano del Nargaroth di “Black Metal ist Krieg”. “Einklang” e “Ausklang” sono le tracce che aprono e chiudono rispettivamente dei monoliti di potenza sonora. Corrodono con una poesia densa di elementi ambient, che pare scontrarsi con l’antitesi violenta delle altre sei opere che custodiscono gelosamente. Si passa da veloci andamenti old school norvegesi (“The Fires of War are Burning”) a melodie ‘spiritual-slow’ inserite in momenti topici di precise canzoni (“Depression of a Doomed” e la crepuscolare “Das Sterben der Ewigkeit”). Nel complesso, lo stile Blutklinge presenta elementi caratteristici facilmente riconoscibili. Dominano incontrastate le chitarre a zanzara, che personalmente amo alla follia, e una batteria dalla registrazione meno cupa del solito. Notevole l’effetto dai cambiamenti di tempo che viene interpretato da piatti e doppia cassa in sincrono (ricordate i Darkthrone degli albori?). La voce è una sofferenza trucida. Senza testo sottomano non sono riuscito a comprendere nemmeno una singola parola, tenendo conto che il cantato è quasi totalmente in tedesco. Tuttavia, se pensate ad una voce alla Steve Austin siete sulla strada sbagliata. Queste corde vocali sono black metal al 100%, è esclusivamente la registrazione che le modifica, le assimila alla stessa distorsione a zanzara delle sei corde. Mi sento male quando devo descrivere magnificenze come “Ahnengeist”. È l’assoluta perfezione di ciò che cerco nella musica, l’Araldo del sentimento di abbandono universale. Quando sono stato in procinto di ascoltare la quinta traccia, “Ragnarök”, mi sono reso conto, con estremo stupore, che l’agonia che avevo nel cuore non era nulla in confronto al dolore di chi aveva scritto quella canzone. Nessuna indecisione. (Damiano Benato)

(Wunjo Kunstschmiede Germanien)
Voto: 100

sabato 12 maggio 2012

Algol - Complex Shapes

#PER CHI AMA: Swedish Death, Thrash, At the Gates, Dark Tranquillity
Melodic Death Metal tutto all’italiana quello degli Algol, e lo posso dire con fierezza stavolta: sono orgoglioso di essere nato nel Belpaese. Tralasciando gli ovvi paragoni-metafora riguardo al nome della band (Algol infatti oltre ad essere una stella è anche il nome di un personaggio di Soulcalibur), posso confermare la generale ermeticità del songwriting e la crescente complessità che si sviluppa durante il primo ascolto. Con un nomignolo così evocativo e un titolo estremamente ragionato, ho dovuto trovare dei momenti particolari per poter procedere all’ascolto di quest’opera senza tralasciare un secondo delle atmosfere presenti al suo interno. Facendo questo, ho solo guadagnato. Gli Algol presentano un sound tutto personale, molto caratteristico in ambito death e che sarà d’obbligo seguire nella sua evoluzione nelle prossime uscite. Alcuni passaggi di tempo e melodie vengono riprese più volte tra una canzone e l’altra, conferendo serietà e compattezza ad un genere che di questi tempi tende a imitare più che sperimentare. Degli omaggi a dei maestri del death, comunque, non si fanno mancare (credo di aver trovato alcuni stralci degli At The Gates e dei Dark Tranquillity degli albori). Non ho mai amato una recensione a pari passo con le singole tracce, preferisco citare quelle che più mi hanno influenzato e fatto riflettere musicalmente. Quindi scusate se non seguo in modo matematicamente freddo la scaletta di undici tracce. Adotto un sistema molto più emotivo. “Still in My Eyes, Burning” rappresenta forse l’unico esempio di una componente ‘sinfonica’ e gothic dell’intero album. Una voce femminile subentra improvvisa e una voce pulita domina i ritornelli. Tastiere di sottofondo risultano estremamente avvolgenti e le chitarre si lasciano coinvolgere in passaggi che sono una manna per le orecchie, decretando un puro melodic death come era da tanto che non si ascoltava. A canzoni più ‘lente’ (diciamo così) come “Gorgon” e “Empire of the Sands”, si contrappongono le rapide sfuriate influenzate apertamente da un thrash old style. “Subvert” si configura perno centrale di quest’ultima tipologia. Voci in growl e screaming duettano in un sottofondo di accecante violenza sonora, perfettamente accompagnata da una batteria che sa il fatto sua (ottima anche la produzione). E poi c’è lei, la title track. “Complex Shapes” racchiude bene o male tutti i diversi fattori che portano gli Algol ad essere quello che sono. Chitarre apertamente swedish-death style su veloci riff di alti e bassi (su questo punto di fondamentale importanza è “Hate Serenades”), grande attenzione all’aspetto tecnico (magnifiche ‘plettrate’) e melodia del ritornello coinvolgente. Necessita di più ascolti. È un lavoro decisamente complesso e ci sarebbe molto altro da dire. Questi padovani sono già all’apice. Hanno creato un album di ampie vedute in un death metal melodico con influssi progressive certamente non convenzionale. Superano i maestri del genere… Si, mi sono permesso di pensarlo a volte… (Damiano Benato)

(Punishment 18 Records)
Voto: 85
 

domenica 29 aprile 2012

Colosseum - Chapter 2: Numquam

#PER CHI AMA: Death, Funeral Doom, Skepticism
Secondo album di questa potentissima band nordica, il terzo se teniamo conto della demo registrata nel 2006, che a me non è affatto piaciuta per i troppi riff ripetitivi, di quelli noiosi, che ti fanno conoscere una canzone dopo i primi quaranta secondi di distorsione. Ma qui, anche se sono passati solo tre anni dall’esordio in sordina, stiamo affrontando qualcosa di differente qualità. “Numquam” è un’opera unica di funeral doom, epica, non eccessivamente lenta e con riff (questa volta si) in evoluzione persino all’interno delle singole tracce. La mia più profonda ammirazione è andata verso la consapevolezza di questa band originalissima, che non teme di affrontare assoli melodici e inoculare atmosfere di speranza all’interno di un’opera doom totalmente nera. Molto sinfonica, a voler essere sinceri, con la presenza ad effetto di flauti e violoncelli che risaltano in un sottofondo di pura oppressione. È una registrazione che abbraccia con la sua tristezza, la sua oscurità, il suo senso di tocco infinito. Mancano quei passaggi depression-style che colpiscono il cuore, ma forse, in questo caso, è meglio così. “Numquam” si apre timidamente con una title track dai forti assoli cosmici, le prime due corde delle chitarre collidono con le ultime due accompagnate dal tormento inquieto di una tastiera che trasmette un forte timore di vana attesa. Epica. “Towards the Infinite” ricorda i padri del genere, Skepticism e Until Death Overtakes Me, amalgamando la lentezza tipica del funeral ad atmosfere maestose di mondi in rovina. Terribilmente desolante. “Demons Swarm by my Side” e “The River” rappresentano le due tracce che più mi hanno fatto apprezzare questa band: riff avvolgenti, poderosi nel loro andamento, assoli dai toni alti che lanciano l’immaginazione verso stati più elevati dell’essere e quell’abbraccio di tristezza che manca nelle altre tracce (“Awaiting the Darkness to Come / Drifting Away… Away…”); di sicuro un momento topico. “Narcosis” funge da collante perfetto tra il doom ‘comune’ delle tracce precedenti a quello più propriamente ‘personale’ dei Colosseum. “Prosperity” è la chiusura perfetta di questo secondo capitolo. Regale. Tenebrosa. Pervasa da un’antica magnificenza di bellezze perdute. Vengono condensate qui tutte le influenze di un gruppo fondamentale per il panorama underground del metal: dall’utilizzo in contrasto di accordi bassi e assoli alti, all’utilizzo di tastiere come mezzo per creare singolarissime atmosfere, agli iperborei momenti evocativi di marce epiche verso il nulla. Ogni strumento risponde perfettamente a sé stesso e comunica solidale con tutti gli altri. Non c’è da aspettarsi nulla da questa band, se non altre sperimentazioni, poiché hanno già scritto quello che dovevano scrivere all’interno della storia del funeral doom. Decisamente poco conosciuti. Nota: “Numquam” è l’ultimo album con Juhani Palomäki alla voce. Nel 2010 il suo spirito ha lasciato questo mondo. (Damiano Benato)

(Firebox)
Voto: 85
 

domenica 15 aprile 2012

Mare Infinitum - Sea of Infinity

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Ahab
Solitude Production. Ormai si va sul sicuro. I Mare Infinitum sono solo una delle tante perle che risplendono di maestosa armonia dal magico universo della terra russa. Certo, il becero antagonismo storico con gli Stati Uniti sembra quasi d’obbligo in questi casi, ma qui stiamo parlando di musica, non di politica, e per di più di un genere che gli USA non sono ancora riusciti a comprendere nella sua profonda interezza (ovviamente generalizzo). Si parla di doom metal. Anzi, funeral doom. La fugacità delle occupazioni occidentali, l’eterno senso di ansia nel quotidiano e una snervante necessità, lavorativamente parlando, di fare sempre di più in sempre meno tempo impedisce in molti casi di ritagliare un angolo per sé stessi. Riflettere. Ascoltare le proprie emozioni. La faccio breve: una determinata tipologia di musica non può nascere in contesti geografici, culturali e sociali che si estendono ai suoi antipodi. Se il black metal è nato nel nord Europa e non a Los Angeles un motivo ci sarà, no? Perdonate il discorsone, ma mi sentivo in dovere di farlo. “Sea of Infinity” presenta cinque tracce di puro funeral doom dalla lunghezza variabile. Il tema che fa da collante è quello dalla sensazione di eterno e immutato perpetrarsi delle cose, metaforizzato simbolicamente dall’orizzonte infinito del mare che si intreccia in modo definitivo con il dominio e la pesantezza dei cieli. Di riflesso, gli strumenti cercano di portare all’attenzione una decisa mimesi con l’effetto perpetuo delle onde che si infrangono sull’acqua. “Beholding the Unseen”, in particolare, riproduce chiaramente questo effetto nei primi due minuti della canzone. Rappresenta senza ombra di dubbio un momento topico all’interno dell’album; è la traccia più strutturata, condensa vari passaggi di tempo e unisce al growl una voce pulita molto avvolgente. Le chitarre si muovono come a rilento, potenti, nitide nelle note, precise come un metronomo. Un apprezzamento del tutto personale devo farlo a “November Euphoria”, probabilmente la miglior composizione strumentale di doom atmosferico che io abbia mai ascoltato, con la giusta dose ed equilibrio di tastiere e melodie a sei corde. Otto minuti di trance che avrebbero qualcosa da insegnare anche ai grupponi funeral già navigati. Unica nota dolente e un po’ fuori luogo: l’utilizzo del violino nella track di chiusura, “In the Name of my Sin”, molto My Dying Bride. Una cosa è chiara: dall’intero album traspira una sorta di timore reverenziale verso tutto ciò che esiste di infinito. Non vi sono grida di sofferenza o penombre minacciose alla Skepticism o alla Catacombs. Si respira qualcosa di diverso. È più un elogio agli abissi oceanici dell’oltrevita, un marciare cadenzato di rispettoso silenzio di fronte all’antitesi dell’esistenza. L’ascolto è doveroso per chi è rimasto affascinato dalle atmosfere degli Ahab di “The Divinity of Oceans”, immensi pionieri del nautic-doom. (Damiano Benato)

(Solitude Productions)
Voto: 85

sabato 4 febbraio 2012

Dark Domination - Rebellion 666

#PER CHI AMA: Swedish Black, Marduk
Magnifico. Un mirabile, fottutissimo esempio perfetto di quello che deve essere il black metal. Non ci sono altre definizioni che posso dare. “Rebellion 666” è un vero monumento e incarna totalmente l’essenza di un genere che non ha genere, un black metal puro di impostazione svedese senza devianza alcuna. Dico ‘svedese’, ed è l’unica precisazione che mi sento in cuore di dare. Sostanzialmente il black svedese si differenzia da quello norvegese per alcuni tratti tipici (ora generalizzo, quindi tratto elementi macroscopici): punta molto sulla violenza musicale e sull’impatto penetrante della registrazione in studio; riguardo le tempistiche è molto più veloce e presenta riff forsennati; concettualmente punta più sugli aspetti estremi del suono e delle liriche piuttosto che affrontare tematiche introspettive e spirituali care allo stile norvegese. Lungi da me definire una linea di demarcazione tra due aspetti della stessa natura. Mi pare comunque giusto specificare la natura intrinseca di questa creatura sonora. Svisceriamola insieme… Pur non spiccando di originalità (non è questo che il black metal delle radici cerca) l’album presenta melodie con una potenza davvero invidiabile e passaggi di scala stilisticamente ineccepibili. La feroce velocità che contraddistingue la maggior parte delle tracce è equilibrata dalla presenza pressoché costante di riff lenti tra una parte e l’altra di ogni canzone. Si fa un uso molto interessante degli intermezzi: sottofondi demoniaci permeano due minuti e trenta tra un traccia e l’altra, conferendo un’aura di enigmaticità non comune per una perla la cui tradizione (black) predispone un range di otto-nove tracce massimo ad album (qui ce ne sono sedici, cioè otto più i corrispettivi intervalli). Elementi di rimando si notano in quei pezzi di chitarra che evocano pericolose atmosfere orientali. Non è difficile leggere tra le righe. D’altronde sono i proprio i Marduk ad aver letteralmente ‘originato’ la variante storica del black svedese. Non mancano poi nemmeno gli aspetti più cupi e morbosi del genere, che contribuiscono a far entrare una band come questa nella leggenda: Frostmourne, uno dei primi componenti, fu trovato impiccato in una foresta l’8 giugno del 2004. (Damiano Benato)

(Evil Distribution)
Voto: 80

http://www.myspace.com/ddomination  

lunedì 9 gennaio 2012

Lunar Portals of the Astral Mirror - Незыблемая власть тоски

#PER CHI AMA: Funeral Doom
…e a volte ritorni alle origini, rendendoti pienamente conto del perché certe melodie sono definite ‘spirituali’, della capacità che hanno nell’evocare nel tuo subconscio energie contrastanti e infinite. Come posso non spingermi in riflessioni filosofiche quando sono davanti a questo tipo di eccellenza musicale? Questo non è “un album”, questo è “l’album” per definizione di come dovrebbe essere un depressive-funeral doom. Dovrà entrare per forza di cose negli annali di storia del genere. Non può essere altrimenti. Signori, abbiamo tre singole tracce (di lunghezza variabile) che racchiudono in esse lo spirito di un’inquietudine talmente profonda da non poter essere espressa a parole. Mantenendoci sul piano puramente musicale si evidenzia un uso sistematico di riff tradizionali slow doom, un uso spasmodico dei piatti (non in senso di oppressione, ma di onnipresenza), pesanti corde di chitarre che creano l’atmosfera per le melodie delle tastiere, e il basso (non ci credo ancora) che si espone in desolati assoli. Un suono potente ma non pressante. Passaggi di melodie che trasportano in universi distanti, in antri dimenticati pervasi da un senso di disperata impotenza. Non vi è ostilità in queste note. Ed è bellissimo. Ecco la musica che prende il ruolo di Madre, che incarna il Bene e il Male allo stesso tempo, che sprigiona una forte volontà di riemergere dagli abissi ma che resta salda nella consapevolezza di essere in un guscio protettivo, mentre si dimora nelle tenebre. E quando senti l’armonia che pervade il tuo spirito ti rendi conto che in tutto il disordine è solo la piccola, debole melodia di una tastiera che apre le porte della speranza… come un’anima, sola, che agogna al termine del samsara in quest’epoca di oscura decadenza. Non ve lo scorderete. (Damiano Benato)

(NitroAtmosfericum Records)
Voto: 90

domenica 8 gennaio 2012

Serment d’Allégeance - Serment I & II


#PER CHI AMA: Dark-Ambient
Opera musicale dai forti tratti magico-cabalistici per il factotum celato dietro Serment, un essere mistico che si autodefinisce “La Masque d’Ames”, lasciando intendere all’ascoltatore molto più di quello che può essere un nome. One-man band proveniente dai merovingi territori al di là dei Pirenei, essenza dolce di un genere ancora poco frequentato nei nostri lidi e adatto (anzi, drasticamente consigliato) ad una fruizione esclusivamente personale. Musica composta da e per un singolo soggetto, magia teatrale senza attori né recitazione, excursus di gran classe attraverso adunate di occultisti. “Serment I” e “Serment II” sono da considerarsi come gemelli di un unico parto, creature generate per un fosco black-metal totalmente di stile ambient, dove pressanti tastiere incombono nichilistiche su melodie che hanno in sé qualcosa di terribilmente metafisico. Non aspettatevi andamenti eccessivamente lenti o riff melanconici spudoratamente depressive. “La Masque d’Ames” ci presenta un compendio magico di sublime capacità evocativa, un connubio di temi e suoni da affrontare con lo stesso rigore che potrebbe avere un cabalista. Il progetto rientra in uno studio che non lascia nulla al caso: entrambi gli album presentano nove tracce, suddivise rispettivamente a gruppi di tre (il numero perfetto triplicato) e identificate fin da subito come “Aesthetic Ambient Art”. Se per forza dobbiamo trovare un parallelo storico, questo di sicuro è Burzum. Badate però: siamo lontani dalla violenza sonora e graffiante di un black metal tradizionale o slow; ciò a cui mi riferisco è più il Burzum dei tempi recenti (e, dato che ci siamo, al Mortis degli inizi). Tastiere perduranti e pianoforte a corde; chitarre dai riff brevi, dai passaggi semplici ma perfetti; percussioni quasi assenti; effetti di suono che reinterpretano i rumori attraverso l’eco di sale sconosciute… Pensate a “Serment” come a un magnifico progetto dark-ambient con influenze black presenti a tratti, quasi totalmente strumentale. È opera occulta, certo, ma interpretata con una coerenza, una serietà e uno stile che non mi era mai capitato di affrontare. Più di una volta mi sono tornati alla memoria degli spezzoni di vecchie pellicole cinematografiche dall’inquietante reputazione: Rosemary’s Baby, Omen, la congrega di streghe in Suspiria, le orge mistiche di Eyes Wide Shut… “Serment” è l’opera ideale per una serata occulta… (Damiano Benato)

(Mort-Né Editions)
Voto: 80

venerdì 2 dicembre 2011

Sadael - Diary of Loss

#PER CHI AMA: Funeral Doom, My Dying Bride, primi Anathema
Rare volte mi è capitato di trovare un album perfetto per un sottofondo da notti solitarie in riflessione senza dire: “Beh, questa canzone si… Questa no… Questa forse…”. Sono impressioni personali, senza ombra di dubbio, ma quel senso di nera filosofia astrale che mi hanno trasmesso i Sadael (anzi, Sadael e basta, visto che si tratta nuovamente di una one-man band) è qualcosa di cui solo un altro gruppo, i Moonspell di Ribeiro, sono riusciti a instillare nel mio inconscio. Lo consiglio vivamente, questo “Diary of Loss”, ennesima fatica di una terra leggendaria, affascinante e piena di mistica come è l’Armenia. Trovano rifugio in questo calderone di sensazioni sette tracce di saggia poesia, una più evocativa dell’altra. Grande interprete di questo album è l’organo-pianoforte, accompagnato da elementi ambient che aumentano l’atmosfera sulfurea di ogni passaggio di tempo o mutamento di melodia (l’ho chiamato ‘piano-riff’, che sia un neologismo?). Il nichilismo, la solitudine e la chimera di una costante perdita dell’essere abbracciano nenie adombranti amori perduti, odiati o mai trovati, testimoniando in questo caso un avvicinamento alle liriche più gothic che doom. Contaminazione. La adoro. Apprezzerete anche gli assoli di chitarra, puliti e perfetti come solo gli Anathema di “Eternity” o “Alternative 4” sono riusciti a fare. Riguardo la lunghezza (questi viaggi non dovrebbero mai terminare) si spazia dai tre minuti dell’intro ai dieci dell’ultima traccia; azzarderei che tutto è stato calcolato per non pesare eccessivamente sull’ascoltatore. Ve lo consiglio vivamente questo album, anche per gli appassionati di dark-ambient. Prendetevi un’ora libera prima di andare a letto, versatevi un bicchiere di vino (“My Wine in Silence”: My Dying Bride docet) e lasciatevi trasportare da questa vera e concreta opera d’arte musicale. Se poi siete studiosi di occulto non lasciatevi mancare un ascolto attento della terza tappa, “Loss”, una metafora dell’eterno ritorno. (Damiano Benato)

(Silent Time Noise Records)
Voto: 80

www.myspace.com/sadael

sabato 19 novembre 2011

Heavy Lord - Balls to All

#PER CHI AMA: Doom, Sludge, Stoner
Verrebbe da dire: “Dall’Olanda con furore…”. Gli Heavy Lord, dopo il (troppo) tradizionalista “Chained to the World” del 2007, propongono sonorità rivisitate e molto più complesse. Ad un primo ascolto “Balls to All” non risulta un album di facile assimilazione. Sembrano troppe le devianze dalla direttrice heavy doom imboccata dalla band sin dal primo esordio, si rischia di abbandonare l’ascolto dopo le prime tre canzoni proprio per una mancanza di coesione e di stile. Stavo per fare anch’io questo errore, ma credetemi quando vi dico che l’energia di questa band è qualcosa di molto potente e comprensibile solo dopo una profonda immersione in questo sound sperimentale. Stilisticamente parlando, gli Heavy Lord si inseriscono nel filone del buon vecchio doom ‘andante’, quello a tonalità rock più veloci tanto per capirci, senza rifiutare qualche uscita in generi limitrofi come sludge e stoner. Più stoner che sludge. Vi sono numerose novità rispetto all’opera precedente. Dunque: la voce in growl si limita a qualche sporadica apparizione qua e là, mentre viene premiata una voce pulita indirizzata alle tonalità sudiste e missisipiane sulla scia (credo imitazione voluta) degli svedesi Devil’s Whorehouse di “Blood & Ashes”. Accenni ai riff maledettamente evocativi del buon vecchio Danzig e una pesantezza delle chitarre che non ha nulla da invidiare a quelle del progetto Down di Phil Anselmo. Nel corso delle otto tracce i pezzi lenti e quelli veloci si amalgamano in un insieme bene equilibrato di potenza e ricercatezza del suono. Onnipresenti sono i piatti della batteria; è un piacere tenere il ritmo. Purtroppo, l’unica nenia che non sono riuscito a sopportare in tutto l’album è proprio la title track, “Balls to All”: l’unica asfissiante melodia continua imperterrita e senza variazioni per tre interminabili minuti e mezzo. Poi però si apre l’eccellenza. “Fear the Beard” e “Drown” sono le preziose gemme verso cui gli Heavy Lord tendono per il futuro. Niente da dire. Sono davvero bravi questi ragazzi. Di sicuro sanno quello che fanno, e lo fanno con serietà. (Damiano Benato)

(Solitude Productions)
Voto: 75

sabato 5 novembre 2011

Abstract Spirit - Horror Vacui

#PER CHI AMA: Funeral Doom
In fatto di gusti musicali mi ritengo una persona fortunata. Ho maturato, con il tempo, un’attenzione quasi maniacale verso gli aspetti più prettamente spirituali della musica, in ogni loro incarnazione. Dico questo perché sono giunto alla conclusione che quasi esclusivamente il genere doom, nelle sue molte derivazioni, è riuscito a imprimere il suo stigma universale nel profondo dei cuori di molte creature, affascinate da un suono che punta quasi ad un’illuminazione mistica. “Horror Vacui” ne è l’esempio: squarcia di netto il confine tra reale e irreale, distrugge il senso di comprensione, isola dai nostri simili. Le sette tracce di questa formazione russa rappresentano a tutti gli effetti ciò che un ascoltatore degno di questo nome si può aspettare da un full-length totalmente funeral doom. Compaiono certamente le tastiere, magistralmente non invasive, che non si arrogano nessun diritto di prima linea e attenuano un pressante senso di panico che pare incombere all’orizzonte. L’epico suono delle trombe dirige una marcia funebre cosmica accompagnato da litanie da cattedrale sconsacrata (ricordo “Until death overtakes me”). Le voci si alternano, a seconda dell’andamento, in growl (lento), sospiri (sottofondo), urla maniacali (stacco di tempo e cambiamento di riff). Sebbene la registrazione pesante accentui la compressione delle chitarre, la direzione verso cui punta la band è decisamente legata ad interessi atmosferici. Non lo considero come un equilibrio di causa-effetto, ma di sicuro un motivo ci sarà se sei tracce su sette superano i dieci minuti. Eh si, devo ripeterlo ancora una volta, perché è fondamentale: “Horror Vacui” è un viaggio nelle regioni più remote dello spirito nella comune tradizione ‘funeral’, un viaggio da affrontare da soli e tutto d’un fiato. L’ascolto ripetuto può avere conseguenze fisiche, quindi fate attenzione. Un momento topico di questo incubo nero lo troverete nella seconda traccia, “Post Mortem”, sintesi di quello che dovrebbe essere un caposaldo del genere. Solitude Productions… La mia etichetta perfetta… (Damiano Benato)

(Solitude Productions)
Voto: 75
 

sabato 1 ottobre 2011

Karg & Andrarakh - Traumruinen

#PER CHI AMA: Depressive Black
Dal gelido inverno di cuori assiderati, “Traumruinen” si fa strada lentamente verso antri di immaginazione buia e universale. Mai combo di artisti fu più riuscita. Mai connessione d’intenti più azzeccata. “Traumruinen” mi riporta ai momenti di squisita solitudine sonora del progetto Nortt, altra incarnazione estrema in toto (e non solo a livello musicale, a quanto è dato sapere). Ma affrontiamo l’album a livello tecnico. Innanzitutto è possibile definire il genere in questione come puro depressive-black, anche se non mancano stravaganze epiche e riff sostenuti come nella cara tradizione norvegese a cui ci si riferisce. Le atmosfere che si respirano in quest’opera elevano tale tipologia di musica da semplice prodotto di un ben definito underground a qualcosa di più raffinato, stilisticamente superiore alla media. Magistralmente ispirate, le tracce si sviluppano coerentemente in un sound che mescola visioni celesti e melanconie abissali, dando l’idea di un debole equilibrio di opposti, testimoniato alternativamente da tastiere sognanti da una parte e dalle distorsione delle corde da un'altra. La base è il buon vecchio norwegian black degli albori, non c’è dubbio, reinterpretato secondo canoni estetico-musicali centrati sulla malinconia, la perdita di un magico mondo antico e, di riflesso, l’odio verso tutte quelle nuove tradizioni/religioni responsabili dell’irrimediabile allontanamento della terra del mito. La traccia che più esprime questo sentimento di mancanza di un passato fantastico è certamente la più evocativa: “Wolkenpoesie”. Credo vi siate già fatti un’idea delle liriche. Slow-black con inserti di tastiera e chitarre non troppo pesanti come ci si aspetterebbe fanno della parte di Karg una piccola perla da assimilare assolutamente. A tutto ciò Andrarakh aggiunge tonalità profonde e una registrazione vecchio stile (io la chiamo ‘alla lontana’ per via dell’impatto vocale distante). “Traumruinen” è un’ immensa, triste, potente preghiera rivolta alla malinconia del passato. (Damiano Benato)

Neige et Noirceur - Philosophie des Arts Occultes

#PER CHI AMA: Ambient Black, Drone, Abruptum
Sono sempre stato un estimatore della libertà sotto ogni punto di vista. Quella fisica, prima di tutto, poi quella di opinione. Quindi ecco perché al termine della prima traccia di questo album un sorriso compiaciuto si manifesta sul mio volto. Signori miei, “Philosophie des Arts Occultes” è la reale libertà di espressione in campo musicale, un emblema di ciò che mente e spirito possono fare se non sono ostacolate da dettami di comportamento o di giudizio. È dai tempi degli Abruptum di “Obscuritatem Advoco Amplectere Me” e della defunta Deathlike Silence Production che non sentivo suoni così avvolgenti. Non c’è niente da fare, non potete apprezzare un’opera come questa se non siete in sintonia perfetta con l’intento di chi l’ha generata. Definire siffatta gemma con black metal-noise music è alquanto (anzi, moltissimo) riduttivo. Tre singole tracce per 25 minuti di suoni, respiri, gorgoglii, ballate nordiche distorte e stremate dalla pesantezza di una registrazione che sa il fatto suo, cantilene terrificanti e litanie esasperate. Dà l’idea di un macabro viaggio nel mondo della stregoneria, e se si può definire dannato un qualsivoglia genere musicale, questo lo è senza ombra di dubbio. Dannato… e pericoloso, almeno per chi crede ai poteri della magia e all’influenza delle energie che si richiamano a distanza. “Ouija”, la terza traccia, vi sbilancerà mentalmente. Pare quasi che la musica vera e propria (uno slow black dei più sporchi) non abbia valore all’interno di un più ampio spettro d’atmosfera. Un magnifico sottofondo di inquietante voracità, a voler banalizzare. Sarete testimoni di un viaggio, durante l’ascolto di “Philosophie des Arts Occultes”. Non chiedetevi quale’è la destinazione. (Damiano Benato)

(Dunkelkunst)
Voto: 90

martedì 30 agosto 2011

Funeral - To Mourne is a Virtue

#PER CHI AMA: Death Doom, Shape of Despair, My Dying Bride
Altro nuovo lavoro per i Funeral, altra nuova release straripante di poesia e abnegazione verso il mondo delle macchine e dello sviluppo. Le atmosfere che la band riporta in auge si accostano a quel sentimento di perdita e rinnovamento che così prepotentemente ha segnato l’intero Ottocento letterario. Le liriche non evocano demoni, ma apatie e mostri dell’inconscio. Soffrire è una virtù. E di virtù, al tempo d’oggi, ne sono rimaste molto poche. Peccato questo non sia un concept. L’album si apre con una melodia pulita di note singole, “Hunger”, che ha qualcosa di intrinsecamente medievaleggiante e piacevolmente rilassante. Il momento paradisiaco termina venti secondi più tardi con l’entrata in campo di chitarre distorte (non eccessive), quasi a voler dichiarare che tutto quello che di bello ci può essere non dura. È uno schema che ritroverete spesso nel corso delle 9 tracce. “God?” è un puro mix di accordi doom My Dying Bride e Shape of Despair. A mio avviso l’interessante idea che sottintende al punto di domanda di “God?” non è però all’altezza dei 7 minuti della canzone. Mi sarei aspettato un exploit o un cambio di tempo verso il termine della canzone, ma il ritmo prosegue piatto e ripetitivo. Altro titolo da prendere in considerazione è assolutamente “Blood From the Soil”, dove le tastiere giocano un ruolo fondamentale nel creare un sottofondo che fa pensare alle altissime navate di cattedrali in rovina. Suoni lenti, toni alti, un basso praticamente inesistente, voci chiare e pulite. Ecco, le voci... Manca una caratteristica di fondamentale in questa fatica dei Funeral: una voce capace di avvolgere, nel bene e nel male. Ogni traccia dell’album è scandita da un coro di voci pulite (canti gregoriani?) che pur eccellendo in passionalità non tiene conto della prima regola del doom come genere musicale: la capacità di rapire l’ascoltatore per portarlo da qualche altra parte, in qualche altro tempo. Quindi, giusto per farvelo sapere, mi trovo davanti ad esempi eccelsi di sonorità come “Your Pain is Mine”, e mi incazzo come un bastardo quando so già che non potrò ascoltarla più di un paio di volte, perché le cantilene simil-gregoriane sono troppo per le mie orecchie, e non ci stanno affatto bene in un album di questo tipo. Appartengono più al genere gothic, e ancor più ad una session femminile. Al contrario, un ottimo lavoro in questa direzione è stato fatto con l’ultima traccia, “Wrapped All in Woe”, un viaggio enigmatico vicinissimo ai lidi frequentati dai nostrani Gothica di “The Cliff of Suicide”. Bei tempi quelli. Cosa posso dirvi per evitare di divagare? L’eccessiva presenza dei My Dying Bride, sebbene estremamente ispirata, è qualcosa di noiosamente ridondante nell’opera: e badate bene, i My Dying Bride rappresentano l’incarnazione perfetta del doom malinconico, il mio giudizio è riferito al quasi esclusivo uso dei passaggi che i Funeral utilizzano in “To Mourn is a Virtue”. Questa è un’opera molto ricercata a livello musicale, ma altamente fastidiosa per la nenia dei cori che insistono a decretare la loro noiosa presenza. (Damiano Benato)

(Solitude Productions)
Voto: 70

domenica 28 agosto 2011

3,14 - неизбежность

#PER CHI AMA: Doom, primi Anathema
Avete presente quando Indiana Jones trova una misteriosa tavoletta in una sperduta catacomba e anche se non sa la lingua con cui è scritta ne conosce comunque il significato intrinseco? Bene… l’album di cui vi sto per parlare corrisponde proprio a questa tavoletta, misterioso nella forma e nella realizzazione. Si presenta come un doppio cd, nero e verde, sui quali capeggia un enigmatico pi greco (π). È appunto il pi greco, nella sua forma di 3,14, l’unica cosa che può arrivare a comprendere un occidentale leggendo le parole del book interno. Devo ammettere che la scelta di questa band di attenersi completamente alle tradizioni del loro paese d’origine (l'Azerbaijan) è alquanto affascinante. Se vogliamo limitarci alle liriche, le cose non cambiano nemmeno nell’ascolto. Non esiste una sola parola di inglese. Parlando delle melodie invece… Beh, siamo di fronte a qualcosa di ancestrale bellezza. Personalmente considero questa musica come un branca innovativa e molto particolare del più vasto insieme doom. Dagli archetipi di indispensabile paragone affiorano immediatamente stralci vividi degli Anathema degli esordi. Voci pulite esalano gli ultimi respiri in una terra venefica sull’orlo del disastro; musica post apocalittica, senza ombra di dubbio, che celebra in ogni sua nota una fine neanche tanto lontana. In questa nenia disperata spiccano basse frequenze di un growl pestifero e accorto, con pieno diritto di cittadinanza in uno scenario nichilistico. La copertina dell’album riporta un’abitazione abbandonata da tempo, catturata in sgranate variazioni di nero e giallo-verdognolo. L’immaginazione si è lasciata colpire dalla vacuità stereotipata di un occidentale datato e mi ha fatto pensare subito al disastro di Chernobyl. Anche se non è (totalmente) così, i 3,14, con questo loro "неизбежность" adombrano comunque nelle loro ritmiche un andamento da esodo di massa, accarezzando il tema di un umanità al di là del baratro. Materiale e spirituale. Questo è potente doom di nuova generazione. (Damiano Benato)

(Self)
Voto: 90
 

Kurouma - 3

#PER CHI AMA: Sludge, Post Metal, Neurosis, Cult of Luna, Isis
Negli ultimi anni i territori del nord Europa (Finlandia nello specifico) sono divenuti luoghi d’elezione per nuove sonorità ed evoluzioni di generi. Nella maggior parte dei casi queste innovazioni si sono applicate fortunatamente all’ambito metal, e hanno contribuito a generare band impegnate in stili musicali di matrice raffinata, ricercata, complessa nel suo divenire, restia ad assumere una forma ben definita. In questo magnifico panorama sorgono senza timore i Kurouma, gruppo di indiscutibile qualità tecnica, caratterizzato da un sound potente ma assolutamente non invasivo (a livello d’ascolto). I Kurouma reinterpretano le lezioni di band come i primi Meshuggah (?) e Neurosis con uno sguardo d’affetto ai Katatonia e agli Anathema di “The Silent Enigma”. Sentirete tutto questo dentro le 5 tracce che compongono l’album, tracce organiche, momenti di distopia che continuano anche al termine delle singole melodie. Vi accorgerete del passaggio tra una canzone e l’altra solo quando il vostro lettore lo segnerà, tanto è marcata la volontà di creare un’opera unica. Un ceppo davvero molto interessante di un’evoluzione del metal che non ha riscontri in altre simili band blasonate. Anche la voce, che ci si aspetterebbe in growl, colpisce per la sua novità: pulita e unita ad un urlato possente, non in screaming, che esalta ogni emozione con una violenza malinconica di riverente fattura, e trascina i nostri sensi lungo il percorso incerto della vita. Caratteri del post-rock s’innervano sottopelle per conferire a psicotiche visioni un’ipnosi da overdose di ascolto. Sono melodie che non cambiano: evolvono! Tastiere delicate accompagnano passaggi di batteria uniformi alla distorsione delle chitarre. Perfino il basso è perfettamente udibile. Che dire… Se siete dei tipi maledettamente malinconici ma non eccessivamente depressi, questo album sarà il sottofondo perfetto per ogni momento della vostra giornata.Ed ecco la domanda più importante: esiste un gruppo, alla portata di tutti, che incarni i sentimenti di dolore umano in una musica potente, senza tuttavia celare elementi ‘bui’? Una sola parola, miei consimili: Kurouma. (Damiano Benato)
 
(Self)
Voto: 90
 

domenica 21 agosto 2011

Baht - Bilinçten Derine

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Kalmah, Susperia
Sono le tre di un pomeriggio insolitamente freddo per l’estate quando mi accorgo di essermi trasformato in un fottutissimo headbanger attempato. Non ci sono i Testament nelle mie cuffie, né il vecchio Mustaine inferocito o i brutali Morbid Angel. No. Stiamo parlando dei Baht, una band thrash-death (con qualche via di fuga prog) che infierisce piacevolmente sui sensi dell’apparato uditivo rievocando momenti di gioventù e schizofrenie latenti. Tradizione e innovazione per un album che si inserisce a pieno titolo in un genere che aveva bisogno, e mai come ora, di una spinta decisa verso la sperimentazione e la qualità tecnica. E allora, signore e signori, ecco presentarsi nella scena metal i Baht, con un lavoro memorabile che saprà certo farsi apprezzare sia dagli estimatori del death che dai sostenitori indefessi dei riffoni thrash. Maturità evoluta in tutte le tracce. Le novità si presentano in questo caso durante il lavoro songwriting e della creazione dei vari inserti armonici, una vera manna per le orecchie. Dimenticate l’uso esclusivo della batteria in fuga e delle chitarre compresse. I Baht strutturano ogni singola opera in modo ineccepibile, trasportando elementi alternati di scala in corde alte all’interno di ritmiche decisamente pesanti, e il risultato è magnifico. Vi troverete di fronte a entusiasmanti contrasti di alti e bassi (soprattutto negli assoli) nello stile dei Kalmah, o in quello di una band a me molto ma molto cara che considero innovatrice dal ‘thrash ragionato’ sotto tutti i punti di vista, i Susperia. Maestose anche le ballate che troverete più o meno al termine di ogni singola traccia. Innesti di sound progressive vengono qua e là accennati; mi chiedo se non sia questa la strada che la band turca vuole percorrere nel prossimo futuro. Non farebbe affatto male una ventata di aria fresca in un panorama stagnante, dove il dominio assoluto, chissà perché, proviene nel 90% dei casi da gruppi di nazionalità statunitense. Quindi questo è quanto: guardate a “Bilinçten Derine” come ad un prezioso regalo in un mercato che in questi tempi vomita prodotti noiosi e ripetitivi. Mi stupisco di come ancora il loro nome non sia associato ad altri grandi del genere. Se mi chiedessero che cos’è il metal, i Baht sarebbero una di quelle band che consiglierei subito ai neofiti. C’è tutto quello che serve qui dentro. Anche di più. (Damiano Benato)

(Self)
Voto: 85

giovedì 21 luglio 2011

Confusion Gods - At the Gates of Confusion

#PER CHI AMA: Black/Thrash
Il nome scelto da questa band italiana si identifica perfettamente con le sonorità che l’album stesso prova a ricercare nella sua evoluzione. Confusione… si… e di confusione ce n’è molta, ve lo posso garantire, nelle 6 tracce che andrete ad affrontare. Dal thrash sporco degli eighties inviato all’ascoltatore come un pacchetto anonimo, al rimando atipico (mai come in questo caso) della scuola black dei primi nineties, con una sosta al genere atmosferico senza diritto di cittadinanza. Lo screaming è violato alternativamente da sussurri e da un growl death che fatica a raggiungere tonalità profonde (non si possono forzare troppo le corde vocali, se non ci si è portati). Nichilistica e corrotta, la voce mi riporta agli esordi dei blasfemi Enthroned, e a mio avviso la band si doveva mantenere su questa precisa direttrice. Facendo le veci del critico stronzo che cerca il cosiddetto ‘pelo nell’uovo’ (scusate, oggi mi ci sento costretto) posso dire che i Confusion Gods hanno una buonissima conoscenza della tradizione black più semplice e statica. Per intenderci: quella delle registrazioni veloci e poco ricercate. Manca quel personalissimo valore spirituale del nord più freddo, ammesso che questa componente non sia stata evitata volontariamente nel lavoro di creazione delle canzoni. Se d’altronde manca la componente armonica dei riff ritmici, i passaggi melodici da una sezione all’altra delle tracce risultano al contrario molto ricercati. È questo che intendo con ‘confusione’ musicale.Davvero non comprendo l’obiettivo della band. Un piccolissimo bagliore di personalità emerge dalle mie cuffie quando li ascolto; nulla più. Indubbiamente è un buon album, certo, e ci sono tutti gli elementi per poter confidare in futuro in qualcosa di più ragionato. Ma per adesso, purtroppo a malincuore, le orecchie del mio spirito blackster-doom non provano che un minimo sussulto. Album adatto a chi vuole ascoltare un po’ di thrash-black senza tanti fronzoli. (Damiano Benato)

(Self/Necrotorture)
Voto: 65

Fangtooth - Fangtooth

#PER CHI AMA: Heavy Doom, Ozzy Osbourne, Tristitia, Cathedral
Se amate le tonalità heavy doom dei Cathedral o i riff del primo Ozzy potenziati all’estremo (Ozzy da solista) non potete lasciarvi scappare questo prezioso album dei Fangtooth. I pezzi sono davvero possenti, pesanti in sonorità, melodici negli assoli, a tratti epici. Ampio l'uso della batteria e dei piatti annessi (avete presente i Cathedral di “Electric Grave”?). La voce presenta diverse gradazioni di tono, ma risulta comunque pulita e omaggia la follia ironica del buon vecchio Osbourne. Al di là di tendenze musicali più estreme, e ce ne sono, il gruppo a cui più si possono rapportare i Fangtooth, giusto per dare un’indicazione di stile, sono i Tristitia di Luis Galvez. Magnifici gli esempi di chitarra doom dai toni compressi, arpeggi melodici profondi e graffianti. Magari ce li vedo solo io, ma gli innesti della southern school Down e BLS mi sembrano più che voluti. È un lavoro che combina moltissime influenze in un insieme compatto e coerente, davvero molto piacevole da ascoltare. L’andamento dei ritornelli acquista come una valenza cerimoniale, plasmata su una voce che funge da litania. Le liriche utilizzano tematiche care al doom: il rapporto dell’uomo con la divinità, le colpe e le condanne di una vita vissuta nel bene e nel male, la futura distruzione dei popoli corrotti, aspetti occulti e rimandi alla stregoneria e alla mitologia. L’ultima canzone si intitola “Cry of the Nephilim”, l’antica razza semidivina che avrebbe avuto uno stretto rapporto con l’evoluzione della razza umana. Vi cito un paio di versi della track “Martyr”, poiché riassumono in toto l’ideologia della band: “Now / I’m going to die / No fear inside my heart / The light embrace my soul”. È questo l’apogeo e il mistero della bestia Fangtooth (in senso positivo) celato in poche righe. Un gruppo da seguire obbligatoriamente nel suo evolvere. (Damiano Benato)

(Solitude Productions)
Voto: 85

http://www.myspace.com/fangtoothdoom  

Aamunkajo - Avaruuden Tyhjyydessä

#PER CHI AMA: Black Funeral Doom
Signori miei, questo è puro funeral doom. L’effetto ipnotico sui sensi è garantito. Lo stacco da una canzone all’altra, infatti, appare nel complesso innaturale: toglie all’armonia un suono che pretende essere di infinito, perennemente in attesa come il cosmo. Anche in questo album l’alternanza di voce pulita a growl-screaming, funge da collante per i lenti riff. Efficacissimo l’uso di tastiere, che più che creare una loro melodia fungono da irreale sfondo. Per quaranta minuti sarete inghiottiti in un abisso vasto e profondo, dominati dal senso spasmodico di una perdita continua. Aamunkajo ci introduce in questa desolazione con la simbolica “Seinättömässä Talossa Kanssasi”, ovvero “In a Wall-less House with You”, facendoci capire fin da subito che da questo momento in poi non esisteremo altro che noi e lui, nell’universo conosciuto. Esatto: universo ‘conosciuto’… perché il titolo dell’album ha evidentemente a che fare con il senso di vuoto buio ed eterno, inneggiando a quella solitudine cosmica tanto esplorata da Lovecraft (“Avaruuden Tyhjyydessä” significa precisamente “In the Emptiness of Space”). Per quanto riguarda gli aspetti tecnici, tutte le canzoni, se non contiamo l’ultima di 8 minuti, durano attorno ai 5-6 minuti. È davvero un peccato, perché questo genere necessita di tempo, non di una toccata e fuga. Si sente l’influenza di Burzum, prevalentemente in quelle parti che alternano voce sofferente ad una gutturalità decisa. Citazioni alla lontana di “Until Death Overtakes Me”. Fantastiche anche le chitarre, che lasciano graffiare senza ritegno le loro corde, lente e dure, accompagnandoci per mano attraverso la vacuità della rovina. Il cantato è totalmente (a quanto sembra) in finlandese, lingua madre dell’autore (eh già, one man band nella più consueta tradizione funeral). Questa è realmente musica nera, senza alcun rimando ad emozioni. Doom del più buio, dove la melodia esiste solo per evitare la perpetrazione di uno slow più tetro. Per precisazione si dovrebbe parlare più di un black metal rivisto in chiave doom (è l’impossibilità di una definizione che crea la qualità). L’ultima traccia, “Graves” è la più angosciante, l’alchimia tormentata dell’intero album. Da ascoltare evocando lovecraftiane creature, ad altitudini estreme, persi tra i boschi notturni, quando le ombre che temevate da piccoli iniziano la loro processione verso oscuri antri di anfratti antichi, i cui snodi conducono a recessi insondabili. (Damiano Benato)

(Satanarsa Records)
Voto: 90