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giovedì 12 aprile 2018

Persefone - Core

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Prog Death/Black Symph, Opeth, Dimmu Borgir
E anche il piccolo stato di Andorra ha la sua band metal: si tratta dei Persefone, che oggi ha parecchia notorietà nel circuito underground ma che nel 2007 rappresentavano forse una curiosa realtà proveniente dal piccolo stato immerso nei Pirenei. 'Core' è il loro secondo lavoro (originariamente rilasciato nel 2006 solo in Giappone, poi anche nel resto del mondo, attraverso la Burning Star Records e ristampato anche nel 2014 visto il sold-out originario), dopo 'Truth Inside the Shades' datato 2004. Il sestetto, formatosi nel 2001, propone un sound a cavallo tra il death (per ciò che concerne le ritmiche) e il black sinfonico (per quanto riguarda gli arrangiamenti e le orchestrazioni). Sicuramente molte sono le fonti di ispirazione per il combo ritrovabili in acts quali Borknagar, Arcturus o Old Man's Child, senza tralasciare neppure le sonorità di Opeth, Orphaned Land e Symphony X. A leggerla così, sembrerebbe di trovarsi fra le mani un bel pacco bomba, in realtà, la proposta dei nostri a quei tempi non si mostrava ancora del tutto matura, anche se s'intravedevano ampi margini di crescita. Le idee ci sono, e anche buone devo ammettere, mancavano forse i mezzi adeguati e una guida esperta, che potesse indicare la giusta via a questa giovane band. 'Core' è un concept album, diviso in tre parti, narranti la storia di Persefone, la mitologica dea greca dell'oltretomba. La musica dicevo, è un mix di death metal, con originali divagazioni in ambito progressive (stile Dream Theater) grazie ad eccelsi virtuosismi dei singoli e ad una generalizzata complessità delle ritmiche (ascoltare la bellissima quarta traccia “To Face the Truth” per capire di cosa stia parlando); accanto al prog death metal sono udibili gli accenni al black sinfonico, con chiare orchestrazioni di scuola Dimmu Borgir ed un elegante avantgarde di matrice Arcturusiana. La presenza di una vocalist femminile ammorbidisce lo screaming feroce (da rivedere) del cantante (che si trova a ringhiare sia in formato growl che clean). Eccellenti le tastiere, a testimoniare la vena progressive dei nostri, cosi come le parti semi-acustiche e le oscure melodie, che completano un lavoro assai articolato e sicuramente di non facile presa, ma certamente già di grande interesse. (Francesco Scarci)

(Burning Star Records - 2007)
Voto: 70

https://persefone1.bandcamp.com/album/core

mercoledì 3 maggio 2017

Combat Astronomy – Symmetry Through Collapse

#PER CHI AMA: Jazz-core/Industrial/Noise/Ambient
Ogni nuovo lavoro della creatura di James Huggett è guardato da queste parti con grande attenzione e, vale la pena dirlo subito, anche questa volta l’attesa è stata pienamente ripagata da un’esperienza d’ascolto davvero intensa e appagante. A due anni e mezzo da quell’oscuro capolavoro che era 'Time Distort Nine', i Combat Astronomy tornano a riproporre il loro impossibile mix tra industrial, sludge, doom e free jazz, alzando ancora di più la posta in gioco. Accanto ad Huggett (basso, diavolerie elettroniche varie e produzione), e sempre più Deus Ex Machina del progetto, troviamo nuovamente gli straordinari Martin Archer (sax e tastiere) e Peter Fairclough (batteria), occasionalmente supportati dalla chitarra di Nick Robinson e dal violino di Wesley Ian Booth; questa volta a prendersi gran parte della ribalta è però Dalila Kayros, una ragazza sarda che i più attenti avranno già incrociato come voce dei post metallers Syk e soprattutto in quel gioiello di sperimentazione vocale che era 'Nuhk', esordio in solitaria datato 2013. Per chi non la conoscesse, Dalila ha una voce straordinaria, con una timbrica che ricorda da vicino quella di Björk, e che con il folletto islandese condivide la passione per la ricerca e l’esplorazione delle possibilità vocali, anche se il suo approccio è decisamente più trasversale e vicino a quello di altri grandi sperimentatori come Diamanda Galas, Mike Patton, Yoko Ono o Demetrio Stratos. Sono quindi le sue corde vocali a marchiare a fuoco queste sei lunghe composizioni, come sempre inafferrabili nel loro muoversi su più piani, scivolando da uno all’altro in maniera repentina quanto inaspettatamente organica. Quello che colpisce lungo l’arco di questi 56 minuti è la netta sensazione che questa sia una musica urgente e necessaria, che non lascia mai l’impressione di essere studiata a tavolino, nonostante sia allo stesso tempo evidente il grande lavoro preparatorio a cui tutti i musicisti si sono sicuramente dovuti sottoporre, soprattutto pensando che, come al solito, le tracce sono state registrate separatamente dai vari musicisti a migliaia di chilometri di distanza l'uno dall'altro. E questo è vero tanto nei brani più aggressivi e abrasivi (le iniziali "Iroke" e "Bhakta") quanto in quelli più riflessivi e dilatati, dove la componente sperimentale si fa più presente e spinta (la title track, "Collapsed" e "Kyber") e dove sembra di essere al cospetto di una versione contemporanea di 'Starsailor' di Tim Buckley, sospesi tra percussioni tribali, derive free jazz e sovrapposizioni vocali che sembrano uscire dalla penna di György Sándor Ligeti. Creatura al solito multiforme e imprendibile, i Combat Astronomy hanno realizzato un nuovo, preziosissimo tassello che impreziosisce il mosaico della musica sperimentale meno prevedibile e non per forza accademica, anzi più che mai viva e pulsante. Ascolto obbligato. (Mauro Catena)

lunedì 26 gennaio 2015

Milk - Core

#PER CHI AMA: Crossover, System of a Down, Sweet Lizard Illtet, Sparta
Uscito nel 2014 per la label indipendente Esquimaux records, il primo lavoro dei Milk dal breve titolo 'Core', arriva direttamente dalla terra del leggendario eroe William Wallace, la Scozia. Con questo EP di quattro brani, il combo della contea di Ayrshire, tenta di fondere sonorità diametralmente opposte, quali possono essere l'elettronica e il metal, riproponendo la formula che in un tempo ormai remoto, rese grande il crossover. Il problema è che tale formula è stata così abusata in passato che sotto qualsiasi prospettiva la si voglia leggere oggi, il risultato è sempre un sound che sa di già sentito. I nostri quattro bravi musicisti vengono premiati tuttavia da una buona qualità audio e un buon equilibrio tra gli strumenti. Quello che rischia di non farli emergere dalla massa è un gusto musicale alquanto discutibile, che unisce un cantato interessante (a cura di Peter Fleming) che offre sfumature a cavallo tra Tool, Sparta e System of a Down, con un cospicuo uso di elettronica anni '90, l'indie rock dei primi Manic Street Preachers, la composizione tipica dell'air metal anni '80 e chitarre pesanti a la Limp Bizkit (ovviamente niente rap!). Il risultato è un sound indefinito, sterile, con poche frecce al proprio arco seppur sia ben orchestrato e ragionato. Una sorta di suono diviso tra le atmosfere elettro/etno/metal di 'Bitter Potion' dei Thorn, scaricati della loro perversione, i System of a Down più orecchiabili, reminiscenze a la Primal Scream nell'innesto elettronico ed infine rimandi ai Godsmack. La fatica, la volontà e il sudore, vanno comunque riconosciuti ai Milk anche se questo lavoro non rende la dovuta giustizia alle loro idee e alla loro reale personalità. Viste alcune performance live, nei video della band sparsi per il web, direi che possono osare molto di più, che hanno tutte le carte in regola e molta più dinamite da far esplodere in un album! Magari irrobustendo il sound e l'aggressività nelle loro prossime uscite, senza perdere quel tocco alternative che almeno come attitudine li protrae verso le intuizioni stravaganti dei mitici Sweet Lizard Illtet, con i loro ritmi dance e quelle buone chitarre rumorose. Manca un pizzico di consistenza in più ma la direzione è quella buona se la si saprà rendere geniale! Premiato l'impegno e rimandati con tanta curiosità per le uscite future! (Bob Stoner)

(Esquimaux Records - 2014)
Voto: 65